Numero 2(94)
Medio Oriente, un gran calderone
Irak sempre meno gestibile. Soluzione dei conflitti ancora lontana,
e la tensione si allarga a macchia d’olio
Iniziando l’occupazione dell’Irak nel 2003, il Presidente degli USA George Bush e il suo entourage tra le altre cose avevano dichiarato che l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, patrocinante il terrorismo, avrebbe portato ad una stabilizzazione del Medio Oriente e all’instaurazione della democrazia nello stesso Irak.
Di lì a breve gli americani entravano in Baghdad, ma nonostante ciò ad oggi nessuna di quelle famose previsioni si è avverata. L’Irak è una vera, infernale fucina nella quale si assiste quotidianamente ad atti di terrorismo e lotte tra diversi gruppi terroristici e religiosi. Contemporaneamente sono sempre meno quelli disposti a collaborare con gli americani, dato che la collaborazione significa poi morte quasi garantita per mano dei guerriglieri.
Praticamente ogni giorno si sente di qualche poliziotto o funzionario iracheno rimasto ucciso. I terroristi sono persino riusciti ad uccidere uno dei giudici che si occupavano del caso di Saddam. Sempre più di frequente vengono organizzati atti terroristici “ad opera di ignoti”, nei quali dei kamikaze fanno esplodere auto riempite di esplosivo in mezzo alle strade più frequentate, provocando centinaia di vittime. Esempio ne è l’attentato del 28 febbraio portato a segno nella citta di El Hilla, con un bilancio di 115 morti e 148 feriti.
Il numero delle vittime americane ha superato il migliaio e mezzo. Inoltre scoppiano in continuazione scandali sui comportamenti eufemisticamente parlando “scorretti” delle forze di occupazione. L’ultimo di questi è la strana storia del fuoco aperto sull’auto a bordo della quale viaggiavano agenti dei servizi segreti italiani, che stavano portando in salvo la giornalista Giuliana Sgrena, vittima di un sequestro. La sparatoria ha causato la morte dell’agente Nicola Calipari, che ha fatto scudo con il proprio corpo alla Sgrena, proteggendola dai proiettili.
Nonostante i rappresentanti del comando americano abbiano assicurato si sia trattato di un episodio accidentale, gli esponenti di Governo e dell’opinione pubblica italiani hanno dichiarato di ritenere l’offensiva premeditata, ed hanno preteso ufficialmente delle scuse da parte degli USA. L’ipotesi di una premeditazione viene supportata dal fatto che l’auto viaggiava a velocità ridotta e non aveva ricevuto nessun tipo di avvertimento prima dell’attacco.
Non hanno modificato la situazione neanche le elezioni parlamentari alla fine di gennaio, in base ai risultati delle quali Gli USA si sono resi conto che potrebbe conquistare il potere la coalizione partitica degli sciiti e dei curdi -abbastanza sfavorevole alla presenza Americana in Irak-, sotto alla guida della quale il Paese potrebbe trasformarsi benissimo in un secondo Iran.
Il Libano è improvvisamente risultato un’altra “zona calda”. Il 14 febbraio, a seguito di un attentato è rimasto ucciso l’ex premier libanese e più che probabile vincitore alle elezioni parlamentari, il miliardario Rafik Khariri. L’attentato sarebbe stato rivendicato da un certo gruppo di islamici peraltro mai sentito nominare prima di allora. Ma la maggior parte dei libanesi ascrive l’omicidio ai servizi segreti siriani. Già da alcune decine di anni in Libano staziona un contingente militare siriaco, ai tempi inviato per mettere fine alla guerra civile libanese. Il presidente della Siria, Khafez Asad, e ora suo figlio e successore Bashar avrebbero tentato di trasformare il Libano in una provincia siriana. Khariri già sperava, dopo aver vinto le elezioni e con l’appoggio della comunità internazionale di costringere i siriani a lasciare il Libano.
Comunque, i servizi segreti siriani - se sono veramente loro i responsabili dell’attentato- hanno ottenuto effetti contrari a quelli desiderati.
La tragica fine di Khariri ha scatenato tumulti e disordini di massa, sostenuti dagli USA. Si è cominciato a parlare di “rivoluzione dei cedri”, in analogia allo stesso tipo di fenomeni che da un pò di anni a questa parte si verificano nell’Europa Orientale. Come risultato il 28 febbraio si è dimesso il consiglio dei ministri, notoriamente filosiriano. A loro volta, sia USA che UE hanno rilasciato dure dichiarazioni riguardanti la Siria, esigendo che quest’ultima si attenga alle disposizioni dell’ONU in merito al ritiro del contingente dal Libano.
Bashar Asad, che si sforza in ogni modo di conservare il proprio potere e di scongiurare il pericolo di un’occupazione americana è stato costretto a dichiarare ufficialmente che il contingente siriano verrà ritirato “entro qualche mese”. Dichiarazione che ha portato un pò di distensione sia in Israele, dove la Siria viene considerata il principale nemico del governo ebraico, sia negli USA, dove Asad, dopo l’eliminazione di Saddam Hussein, ha cominciato a essere visto come il maggior sponsor del terrorismo del Medio Oriente. È tuttavia una felicità che potrebbe abbastanza rapidamente tramutarsi in preoccupazione.
Non c’è garanzia alcuna che gli innumerevoli gruppi di pressione libanesi, divisi dal fattore confessionale, non decidano di prendere le armi al fine di risolvere le proprie divergenze mediante qualche strage. Ad ogni modo i siriani hanno messo le mani avanti. La Siria e l’Iran infatti, temendo un attacco da parte degli USA hanno annunciato la costituzione di un “fronte di coalizione” contro eventuali, “comuni minacce o sfide”. Se a tale coalizione si dovesse unire anche la Corea del Nord, che ha infine ammesso ufficialmente di possedere armi nucleari, gli USA per la prima volta nella loro storia si troverebbero di fronte ad un avversario armato di bombe atomiche e che non ha niente da perdere.
Per lo stesso Israele febbraio è diventato il mese delle speranze e delle delusioni. Il 9 febbraio il leader palestinese Makhmud Abbas e il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon hanno firmato gli accordi sulla soluzione pacifica del conflitto tra israeliani e palestinesi, E già in molti pensavano che si fosse finalmente arrivati a un dunque. Tuttavia, non avendo Abbas il controllo su tutti i gruppi armati di islamici, presto i sogni di pace sono svaniti di fronte ad un episodio tremendo. A Tel’ Aviv, all’ingresso di un locale notturno è stato compiuto l’ennesimo attentato, il primo dall’inizio del governo di Abbas. Sono morte quattro persone e 50 hanno riportato ferite di varia gravità.
Questo comunque non ha impedito ai Paesi occidentali di promettere ad Abbas 750 milioni di dollari a titolo di aiuti, come non ha impedito alla Russia di offrire ai palestinesi tecnologie di blindaggio.
Traendo delle conclusioni si può dire che il nuovo e democratico Medio Oriente continua a rimanere un gran miraggio, ed è possibile che l’instabilità perduri ancora a lungo. Perlomeno fino a quando la presente generazione di politici-demagoghi non verrà sostituita, e fino a quando l’Occidente non si deciderà a risolvere i problemi che interessano questa regione in maniera seria, tenendo conto delle tradizioni e delle usanze locali.
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