Numero 3(102)
Intervista a Maximiliano Gritti
chef del ristorante “Pinocchio” in Kutuzovskij Prospekt
La cucina è il tradizionale biglietto da visita degli italiani all’estero. E d’altra parte, per gli italiani in qualsiasi parte del mondo entrare in un ristorante italiano è – o dovrebbe essere – un po’ come tornare a casa. Obiettivi che si prefigge di raggiungere ogni cuoco italiano che si rispetti. Senza mai dimenticare arte, innovazione e anche concorrenza. Insomma, con un occhio alla cucina e uno alla sala, e oltre…
– Su cosa punta o dovrebbe puntare un cuoco italiano moderno oggi per avere successo?
– Un cuoco non solo deve essere professionalmente competente e preparato, deve essere anche bravo a gestire un certo numero di dipendenti. Ad esempio qui a Pinocchio lavorano 40-50 persone. In Italia di meno, la media di solito è di quattro o cinque - con l’eccezione dei grandi alberghi –. Quindi uno dev’essere bravo a “far da mangiare” sì, ma anche a gestire il personale. Inoltre un cuoco deve sapere mantenere le pubbliche relazioni, deve sapersi proporre, “vendere” e valorizzare. Soprattutto in Russia, è importante instaurare dei rapporti con la clientela, con i vip, con le ditte, etc. Sapendosi proporre bene al cliente poi emergono nuove possibilità di sviluppo professionale, nuove proposte di lavoro etc. Bisogna tenersi sempre aggiornati, per esempio sulle nuove tecniche di lavoro, reperire materiale utile in tal senso (riviste, dvd etc). Da questo punto di vista Mosca offre molto, anche se non a livello scolastico. Ci sono è vero le scuole di cucina per i russi, ma poche opportunità di perfezionamento per i già professionisti. L’unica occasione è rappresentata dai master class tenuti periodicamente da grandi chef in visita a Mosca su argomenti specifici, tipo su delle tecniche di lavorazione particolari (ad esempio l’anno scorso uno chef famoso ha tenuto un seminario sulle cotture sottovuoto). Ma di fisso e di costante non c’è niente. Altro fattore importante sono le lingue, perché lavorando in un paese straniero è importante farsi capire, parlare coi clienti, con il personale etc. È anche importante avere sempre una marcia in più, qualcosa di nuovo o particolare che gli altri cuochi non hanno. Infine, come in tutti i business, per avere successo bisogna avere una buona dose di fortuna. Oltre ad essere bravo, devi sempre avere quella via, quel canale che ti porta poi ad ottenere una certa posizione o certi risultati. Molto spesso bisogna essere, come si dice, la persona giusta al momento giusto e nel posto giusto, per fare carriera. Facciamo un esempio banale, come quello dello chef Vissani in Italia. Essere lo chef di D’Alema gli ha fatto grande pubblicità, e gli ha permesso di conseguire quel prestigio e quella fama che magari avrebbe trovato, ma non a quei livelli; sarebbe stato sempre un grande professionista, però non all’apice del successo come è adesso. Quindi in sostanza bisogna essere anche fortunati.
– Quali sono i fattori di rischio e d’intralcio nel vostro business?
– Quello che può intralciare è una cosa sola, che è molto semplice: lavorare per una persona che non capisce che il fatto di avere lo chef italiano non è sufficiente. Magari mette in secondo piano l’attrezzatura in cucina, la materia prima, il personale, e tutte le cose complementari al nostro lavoro, e non dà loro l’importanza che dovrebbe dare. Uno chef a cui manca la materia prima di qualità, o il numero di persone adeguato in cucina non va molto lontano. E così anche se non ha la fiducia del proprietario, che crede in lui. Il proprietario paga un professionista, e lo paga caro, ma ne trae tutti i benefici, ammesso che gli dia fiducia e lo ascolti in merito a come il lavoro dev’essere svolto.
Ho trovato sempre dei dirigenti che mi hanno appoggiato in tutte le mie iniziative. Ed è per questo che adesso sono arrivato dove sono, e ho un ruolo di responsabilità. Ora sono capo di tutta la catena di ristoranti Pinocchio. Un altra cosa importante è la motivazione. Un ristorante dove non c’è gente, o dove manca il personale non ti fa venire molta voglia di lavorare. Nel ristorante in cui ero i primi tempi qui in Russia facevamo solo tre coperti a sera. Anche se lo stipendio era buono e la materia prima ottima non ero molto motivato.
– Cosa pensa della critica gastronomica?
– Premettendo che Pinocchio ormai è uno dei ristoranti più affermati a Mosca, perché abbiamo un alto livello di professionalità e di materia prima, 5 chef italiani, una bella struttura (insomma non ci manca niente) -, personalmente non ho mai dato più di tanta importanza alle critiche, anche in Italia. Perché molte volte è anche un discorso di interesse. A volte sono i ristoranti stessi a chiamare il critico per fargli fare la recensione positiva, magari anche a pagamento. Io preferisco ascoltare il cliente. La critica dipende anche molto dal momento. Il critico magari arriva quando il locale è strapieno… I giudizi negativi possono anche essere ben meritati, però alla fin fine sono i numeri, a indicare il successo.
– Il personale russo del settore è sufficientemente competente e preparato?
– I russi che abbiamo qui sono molto bravi. E vedo tante persone valide. Certo, una selezione si deve sempre operare, all’apertura di un locale, perché magari tanta gente viene per svolgere un lavoro come un altro, senza particolare passione. La più grande difficoltà è soprattutto quella di far capire i nostri sapori e i nostri gusti al personale russo, di fargli capire la nostra cucina, il nostro sistema di lavoro. Non è semplice, perché loro hanno un modo di lavorare che è diverso dal nostro. Non dico migliore o peggiore, ma solo diverso. E come se io dovessi lavorare con un messicano, con un cubano o con un tedesco. Ognuno ha il proprio modo di lavorare…
– Un esempio?
– Prendiamo la salsa al pomodoro. Noi prendiamo le verdure, poi le facciamo brasare, poi aggiungiamo il pomodoro… insomma seguiamo delle fasi di lavorazione precise. Il russo non lo capisce, prende nota degli ingredienti quando gli fai vedere la lavorazione, e la volta successive mette tutto insieme e lo fa cuocere così. Bisogna fargli capire che le fasi di cottura sono importanti. Comunque quando trovi la persona che sta volentieri in cucina, sicuramente impara e sa cucinare. Noi abbiamo gente che lavora anche meglio degli italiani.
– È vero che per fare della cucina italiana è necessario usare solo ingredienti italiani?
– No. Questa era la tradizione di una volta. Oramai la globalizzazione è arrivata anche in cucina; c’è un continuo passaggio di informazioni e influssi provenienti da tutto il mondo, Francia, Inghilterra, Giappone, Brasile. La cucina italiana rimane la stessa, con i sui sapori, i suoi aromi, pasta, basilico, olio d’oliva… Però, una volta che si conoscono, si possono aggiungere dei materiali diversi, come fanno i grandi chef. Quindi si possono inserire ingredienti o adattare tecniche di lavorazione straniera a un piatto italiano, oppure prendere piatti stranieri e reinterpretarli in senso italiano (tipo sushi), anche se condivido l’opinione del mio collega Luca Verdolini qui al Pinocchio sul fatto che una fusion che stravolga l’alta cucina non abbia senso.
– E la cucina francese?
– Personalmente a me non piace. Troppi grassi, burro, panna. La cucina italiana rimane per me la migliore in assoluto, la più sana, la più genuina e saporita. Però è un giudizio personale. Posso dire che i francesi sono sicuramente superiori agli italiani in cucina per quanto riguarda le tecniche di lavorazione della materia prima, decisamente all’avanguardia.
– Un errore o qualcosa che avrebbe fatto in modo diverso nella Sua carriera?
– Io sono contento della carriera che ho fatto, e di dove sono arrivato. Forse non pensavo di arrivare a lavorare a certi livelli. Pensavo di diventare cuoco, perché in famiglia abbiamo dei ristoranti, ma mai pensavo di arrivare a dirigerne io di diversi e ad alto livello. Se fossi entrato in questa prospettiva quando ero più giovane avrei fatto in modo di andare a lavorare esclusivamente per ristoranti di un certo calibro, e avrei potuto imparare prima certe tecniche, certe lavorazioni… è stata quindi una carriera più lunga. Però ad esempio in Germania ho imparato la lingua, in Malesia, oltre all’inglese ho imparato a gestire una grande brigata di cucina (50 persone). Sono state esperienze che si sono rivelate comunque utili.
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