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Numero 7(52)
Israele: ancora guerra

    La pazienza dell’esecutivo israeliano, da tempo messo alla prova da numerosi terroristi kamikaze è terminata scappata dopo che l’ennesimo terrorista si era fatto esplodere insieme a decine di persone che festeggiavano la Pasqua.
    Il 29 marzo, nell’ambito dell’operazione “Muro protettivo”, i reparti dell’esercito israeliano, del TSAHAL, sono entrati sul territorio dell’Autonomia palestinese, occupando nel corso di alcuni giorni tutti i centri abitati più o meno importanti. I palestinesi continuano a controllare, sulla riva Occidentale del fiume Giordano, solo Gerico e alcuni quartieri di Hebron (El-Halil).
    Una delle prime città ad essere occupate definitivamente è stata Ramallah, “capitale” di Arafat, capo dell’Autonomia palestinese, che vi era bloccato da dicembre dell’anno scorso. Di conseguenza, Arafat, la sua guardia e decine di persone ricercate da israeliani per aver organizzato ed eseguito gli attentati, sono rimasti chiusi in uno dei piani dell’ex residenza del leader palestinese. Tutti i loro tentativi di uscire dall’accerchiamento sono stati troncati. Numerose dichiarazioni dello stesso Arafat, secondo le quali preferirebbe diventare martire piuttosto che arrendersi, sono state ignorate dagli israeliani: sanno benissimo che il capo palestinese non ha niente di più caro della propria vita. E poi, nessuno, tranne lui, conosce i codici segreti dei conti, sui quali confluiscono tutti i soldi ricevuti dai palestinesi.
    Ma il vero centro di questa strana guerra non è Ramallah, ma Betlemme, in cui i soldati del TSAHAL sono entrati il 2 aprile. Qui le azioni degli israeliani sono state complicate dal fatto che i palestinesi cercavano di usare come rifugi le chiese locali, luoghi sacri per tutte le confessioni cristiane. Circa 100 palestinesi armati si sono nascosti nella chiesa della Vergine. Da 200 a 400 guerriglieri si sono chiusi nella chiesa del Natale di Cristo. I mass media palestinesi e internazionali hanno trasmesso più volte diverse domande provocatorie di aiuto, che provenissero dai monaci cristiani e dalla popolazione civile locale, nonché i racconti sull’irriverenza, manifestata da israeliani verso i luoghi sacri del cristianesimo, cercando di suscitare un’esplosione dell’antisemitismo religioso. Ma gli israeliani, in realtà, praticamente non avevano la possibilità di far uscire i palestinesi dalle chiese, occupate da essi. Del resto, i palestinesi che si erano nascosti nella chiesa di Maria, dopo un po’ si sono arresi: non per l’amore della pace, ma solo perché nella chiesa è finita l’acqua, e non avevano nessuna voglia di morire, nonostante i loro slogan sulla beatitudine acquistata con la morte. Anche coloro che si nascondevano nella chiesa del Natale hanno deposto le armi e… hanno chiesto asilo alla Chiesa cattolica. Nessuno, intanto, è rimasto scandalizzato dal fatto che l’asilo è chiesto dagli uomini che sono, secondo quanto dicono loro stessi, musulmani fanatici.
    Le dure battaglie, con l’uso di mezzi pesanti, si sono svolte anche nella città di Genin e nel campo di profughi palestinesi, situato a poca distanza da essa. Il numero esatto di morti non è noto, ma si ritiene che sono centinaia. Alcuni quartieri sono stati rasi al suolo.
    In alcuni giorni sono state arrestate circa 1000 persone, comprese alcune figure chiave dell’amministrazione palestinese, sono stati trovati numerosi nascondigli con le armi, nonché i documenti, i quali dimostravano che tutti gli attentati clamorosi, commessi dai terroristi suicidi sono stati accuratamente pagati da Arafat e dai suoi sponsor. I militari israeliani a Ramallah hanno distrutto alcune tele- e radiotrasmittenti private palestinesi.
    Contemporaneamente allo sviluppo della campagna militare, nel mondo si levava l’ondata dell’isterismo antisraeliano. Il governo della Svizzera ha dichiarato la sua intenzione di rivedere i propri contatti economici e militari con l’Israele, dato che la Svizzera “non accetta trasgressioni delle norme legali internazionali e dei diritti umani, commesse da Israele”. Ma tale sensibilità non impediva e non impedisce alla Svizzera di collaborare con regimi ambigui di alcuni Paesi africani e arabi: tutto dipende dalla cifra di depositi…
    In Europa occidentale e negli USA si sono svolte manifestazioni proisraeliane e propalestinesi. Alle ultime, a parte i rappresentanti delle comunità musulmane, partecipano pacifisti, antiglobal e l’estrema sinistra: bisogna, infatti, guadagnare in qualche modo un capitale politico. L’organizzazione internazionale “Amenesty international” ha accusato i militari israeliani di aver violato gravemente i diritti umani sui territori palestinesi, “dimenticando” che delle guerre che non comportino tali violazioni, non ce n’erano e non ce ne saranno mai.
    Un rappresentante diplomatico dell’Israele è stato invitato in Vaticano, dove gli è stato consegnato un messaggio del Papa, in cui il pontefice accusa la parte israeliana di aver sopraffatto e percosso i palestinesi. Il messaggio contiene anche una condanna degli attentati, commessi sul territorio di Israele da guerriglieri palestinesi.
    Il primato nell’israelefobia (o nella palestinofilia), ce l’ha, tuttavia, l’UE. Il 7 aprile, Josep Pique, ministro degli esteri della Spagna, ha detto che, qualora l’Israele non ritiri le truppe, saranno introdotte sanzioni economiche a suo carico. In questo modo, proprio particolare, l’UE cerca di far valere di più il suo ruolo nella composizione del conflitto in Medio Oriente. Nel contempo, nessuno Stato europeo ha accettato l’invito del primo ministro israeliano, Ariel Sharon, di ospitare sul suo territorio il leader palestinese Jasser Arafat, come profugo politico o con qualsiasi altro status. La vox clamantis in deserto è diventata la dichiarazione fatta dal cancelliere tedesco Gerhard Schroeder che ha condannato la dirigenza dell’UE per aver stanziato altri 50 milioni di euro, per dare un “aiuto finanziario all’amministrazione dell’Autonomia palestinese”. A detta di Schroeder, “il rilascio di una somma così cospicua ai palestinesi nella situazione attuale, non raffredderà affatto le passioni che imperversano in Medio Oriente”.
    La Russia e gli USA, da parte loro, hanno cercato di prendere delle misure, mirate alla composizione del conflitto, ma queste misure si riducevano prevalentemente a una sola: quella delle pressioni su Israele. Il 7 aprile, il Presidente degli USA Bush ha richiesto in forma categorica a Sharon di ritirare le truppe dalle città palestinesi e di concedere al rappresentante americano Zinny di incontrarsi con Arafat. Il giorno prima, d’altronde, Bush aveva detto, nel suo messaggio, trasmesso dalla radio nazionale, di non credere alla possibilità della composizione pacifica e di aver perso completamente la fiducia nel desiderio di Arafat di concludere la faccenda con la pace. Queste pressioni da parte degli americani sono dovute alla decisione statunitense di eliminare a tutti i costi il regime di Saddam Hussein: gli USA sono disposti ad accettare qualsiasi concessione per assicurarsi l’appoggio di questo proposito da parte dei Paesi confinanti con l’Iraq. Le pressioni degli americani hanno comportato il ritiro forzato delle truppe israeliane da alcune città occupate dell’Autonomia palestinese, nella notte tra il 7 e l’8 aprile. Gli israeliani, del resto, non si sono allontanati troppo, stabilendo un blocco duro delle città lasciate. Inoltre, continua l’organizzazione di una così detta zona cuscinetto che in futuro dovrà separare l’Autonomia dai territori israeliani e non permettere ai terroristi di entrare in Israele.
    Dei politici russi, il più duro nei commenti è stato il ministro della difesa Serghei Ivanov che avrà ricordato le vecchie lezioni della “formazione politica”, definendo le azioni di Israele a Betlemme “una guerra sporca”. Inoltre, alcuni politici russi si sono messi ad affermare che il collocamento di truppe israeliane a Betlemme potesse comportare una violazione della pace religiosa, benché il fatto che vi fossero state le truppe musulmane, né quello della presenza quasi trentenne di israeliani, precedentemente non dava fastidio a nessuno.
    Il 4 aprile, Natan Meron, l’ambasciatore di Israele in Russia, ha dichiarato, in risposta, che l’esercito israeliano che svolge l’operazione sul territorio palestinese non ha l’obiettivo di “eliminare fisicamente Jasser Arafat”; i militari israeliani sono chiamati solo a “distruggere le infrastrutture del terrorismo palestinese”. A detta di Meron, l’attività attuale delle truppe israeliane è una mossa di risposta ad una serie di attentati commessi dai kamikaze palestinesi.
    “Siamo presenti al baccanale e all’assassinio dei cittadini civili di Israele da parte di estremisti suicidi, mandati dai mostri, e il nostro scopo è quello di trovare codesti mostri”, ha affermato l’ambasciatore. Lui ha rilevato che l’Israele ha diritto di autodifesa e farà tutto il possibile per riconquistare la stabilità nella regione. A sua detta, qualora Arafat facesse un discorso alla TV in lingua araba, invitando i suoi sostenitori di cessare la violenza, l’ondata del terrorismo da parte dei palestinesi sarebbe finita. Invece, ha osservato Meron, “vediamo solo l’intensificazione dell’attività degli estremisti palestinesi”.
    Alla Russia, del resto, il conflitto palestino-israeliano ha portato dei dividendi assai sensibili: il prezzo del petrolio vola di nuovo, avendo superato le previsioni più ottimistiche.

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