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Numero 7(87)
Il Presidente contro il fallimento
Tocca alla Yukos muovere


    Da ottobre 2003 è già per l’ennesima volta che l’attenzione della società russa in genere e dei mercati finanziari è attratta dalle vicende della Yukos e di Mikhail Khodorkovskij.
    Negli ultimi mesi ci si è abituati a separare la sorte, o, più precisamente, il “caso” dell’oligarca dalla sorte della compagnia, ma in realtà tale distinzione può essere erronea. Essa infatti non fa che riflettere la visione degli investitori stranieri, dovuta all’esperienza di economie sviluppate, in cui gli azionisti non sempre intervengono attivamente nella gestione di un’azienda, mentre i manager ingaggiati sono in grado di strutturare il business della compagnia non peggio degli azionisti dotati del potere politico o di contatti utili.
    Il primo motivo per il quale tale approccio in ambiente russo non va bene è dovuto al fatto che in Russia le società anche abbastanza grandi sono gestite direttamente dagli azionisti, e i manager ingaggiati non hanno quasi mai una possibilità incondizionata di prendere decisioni non concordate con gli azionisti. Tale situazione è particolarmente caratteristica del settore petrolifero, perché le mosse delle compagnie di questo comparto e gli interessi politici e strategici dello Stato sono così spesso intrecciati che i manager finiscono col non avere poteri sufficienti per concordare decisioni di tale livello.
    Il secondo motivo è questo: nei Paesi industrializzati le società lavorano nell’ambito di una legislazione evoluta e costante, mentre in Russia le leggi sono ancora in fase di formazione. Le società, usando i contatti politici dei loro azionisti, hanno la possibilità di prendere parte allo sviluppo della legislazione che permette di regolare il business in modo migliore per lo sviluppo del proprio business. Quindi, anche in quest’area il ruolo degli azionisti è fondamentale per lo sviluppo del business. Alla fine, la stessa struttura delle aziende russe, create in base alle imprese sovietiche, è stata condizionata dalla capacità dei loro azionisti maggioritari di mettersi d’accordo con il potere federale o regionale sull’ottenimento di un certo tipo di attivi. E quindi se l’azionista principale si allontana da una compagnia ciò inasprisce nei concorrenti il desiderio di accedere ai suoi attivi, visto che le sue unità produttive si inseriscono meglio nel loro ciclo produttivo. Alcune compagnie petrolifere russe, ad esempio, sentono la mancanza delle unità di trasformazione e sarebbero contente di poter aumentare il loro volume acquistando gli attivi di altre società.
    Come abbiamo già scritto sui numeri precedenti del giornale, la situazione della Yukos, dall’ ottobre 2003, è una specie di esperimento per capire meglio come si gestisce un’azienda in regime autonomo. Anche se dal punto di vista degli indici finanziari i risultati dell’ attività dei manager appaiono buoni, non va dimenticata una cosa: negli ultimi sei mesi la società ha pagato al suo principale azionista, il gruppo Menatep, dividendi per l’ammontare di 3 miliardi di dollari, ma contemporaneamente il suo debito nei confronti degli azionisti ammonta a circa 7 miliardi di dollari. Tale ridistribuzione dei flussi finanziari fa capire che i dirigenti della compagnia pensavano all’eventuale scenario della bancarotta: in questo caso i creditori hanno il diritto prioritario, nei confronti dello Stato, di ottenere le proprie obbligazioni. E’ lecito pertanto affermare che per l’équipe degli amministratori della Yukos lo scopo fondamentale fosse non tanto quello di tenere ad un certo livello il corso delle azioni, il che è impossibile nella situazione attuale, quanto quello di far uscire gli assets e di creare lo schema più sicuro dei flussi finanziari per la situazione della bancarotta.
    Ciò ci porta alla questione principale, quella dell’eventuale fallimento della società. I sostenitori dell’approccio occidentale insistono sulla possibilità di risolvere la situazione della Yukos mediante un compromesso amichevole: lo Stato non è interessato al fallimento, vuole avere soldi per il bilancio e basta, mentre i proprietari della Yukos sono solo contenti di dare questi soldi e di essere scarcerati, diventando più poveri di qualche miliardo, ma tenendo in vita l’azienda. Ne deriverebbe quindi un compromesso pragmatico.
    Tale scenario si basa forse su premesse giuste, ma non sembra considerare proprio tutti i fattori. Si, è vero che allo Stato il fallimento della Yukos sicuramente non serve a niente: si tratterebbe di un precedente troppo clamoroso, non è chiaro come vendere gli attivi, perché è difficile che qualcuno, oltre alle compagnie pubbliche come la Gazprom o la Rosneft, voglia acquistare gli assets della Yukos, e poi c’è ormai chi si mette ad accusare lo Stato di aver cominciato a nazionalizzare gli attivi nel Paese. E anche la dichiarazione di Vladimir Putin, secondo la quale lo Stato non sarebbe per niente interessato al fallimento della compagnia, che ha comportato un’impennata del costo delle azioni Yukos a metà giugno, appare assolutamente sincera. Ma pare che in questa fase della partita a scacchi fra il Cremlino e la Yukos tocchi muovere a quest’ultima, cioè al suo ex dirigente recluso.
    Per quanto lontana appaia la sorte di Khodorkovskij da quella della Yukos, ciò è solo un’illusione dei mercati finanziari. Le alternative di Mikhail Khodorkovskij sono: da alcuni anni di reclusione (nella peggiore delle ipotesi) ad una condanna con la condizionale, con il successivo abbandono del Paese (nella migliore delle ipotesi). E’ difficile che egli riesca a tornare sulla vetta dell’elenco degli uomini più ricchi del mondo e della Russia, ed è ancora meno credibile che possa tornare ad amministrare la sua società, ma i soldi accumulati sui conti in Svizzera o fatti uscire sotto forma di dividendi ovviamente gli basteranno per fare una vita agiata. La decisione definitiva sulla sorte di Khodorkovskij dipende poi pochissimo da ciò che fa lui, e invece dipende quasi completamente dalla volontà di persone che si trovano ai vari gradi del potere. E ciò può costringerlo a impostare le proprie mosse in conformità allo scenario peggiore.
    Questa situazione ricorda molto il famoso dilemma del prigioniero nella teoria delle decisioni. Sarebbe meglio per tutti risolvere la situazione in modo pacifico, come quello che abbiamo descritto prima, ma nessuno può garantire che l’altra parte accetti il compromesso. Si, è possibile non far uscire i soldi dalla Yukos, sperare nella condanna con la condizionale, ma nessuno garantisce tale soluzione, e quindi si può perdere tutto. Come nel dilemma del prigioniero, pertanto, invece di concordare le proprie mosse per ridurre al minimo i propri danni, sia lo Stato che la Yukos opereranno partendo dalla premessa sulla mancanza di cooperazione.
    In tale situazione, una mossa assennata degli azionisti della Yukos sarebbe quella di continuare a far uscire gli assets. Se il processo a carico di Khodorkovskij andrà per le lunghe, e ciò è assai probabile, perché non sarà facile per la procura dimostrare l’illegalità dei suoi atti, non è da escludere che la condizione finanziaria e rispettivamente la capitalizzazione della Yukos si riducano così tanto che si trattera’ davvero di un fallimento. Tale scenario sarà scomodissimo per lo Stato, ma forse è l’unico modo in cui Khodorkovskij puo’ guastare il sangue agli uomini del potere. E’ vero che secondo Vladimir Putin lo Stato non e’ interessato al fallimento dell’azienda, ma è solo metà dell’opera, ora tocca muovere alla Yukos e ai suoi proprietari.

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