Numero 11(91)
ARANCIO!
Il secondo turno delle elezioni del Presidente Ucraino, svoltosi il 21 novembre, ha scatenato prima un tumulto di massa, e dopo, pare il caso di dirlo, un cambiamento dell’ordinamento statale: l’Ucraina si è trasformata, da repubblica presidenziale in parlamentare-presidenziale.
Ghiaccio e fiamma
Il 21 novembre, alle elezioni si sono scontrati due candidati, l’ex premier Viktor Yuscenko, che ha riunito nella sua alleanza “Nasha Ucraina” (La nostra Ucraina) i nazionalisti (anche gli ultrà) e i politici in opposizione a Kuchma, da una parte, e Viktor Yanukovich, il premier attuale, che si appoggiava al clan finanziario ed industriale di Donetsk.
La propaganda preelettorale ha battuto tutti i record per la quantità di accuse infamanti, arma usata da entrambi i candidati. Yuscenko ha quasi ufficialmente nominato il suo avversario “un recidivo”, accenando ai suoi due precedenti penali risalenti a vent’anni fa, e ha fatto capire che il premier avrebbe potuto vincere solo tramite falsificazioni e numerosissimi brogli. Parlando invece di sé stesso, Yuscenko si è presentato come un “candidato del popolo”, quasi un messia, capace di risolvere tutti i problemi in una volta. Anche Yanukovich non è stato da meno del suo rivale, ricordando gli errori commessi da Yuscenko mentre ancora ricopriva cariche della massima importanza. Va rilevato, a proposito, che durante l’unico dibattito televisivo alla quale abbiano partecipato, il candidato dell’opposizione, avendo forse troppo “abbassato la guardia” in quel momento, dagli spettatori ha ricevuto minori consensi rispetto al suo avversario. Yanukovich è riuscito a essere in quel frangente più convincente e affidabile di Yuscenko, che ha adoperato pochi slogan populisti.
Inoltre, il Presidente russo Vladimir Putin che, con una tenacia poco comprensibile, cerca di promuovere candidati “utili” nei Paesi della CSI, ha fatto visita a Yanukovich in Ucraina, per dargli una fetta del proprio indice di gradimento. Nel centro elettorale del premier ucraino lavoravano “tecnologi politici” russi, mentre la stessa campagna elettorale, secondo alcune indiscrezioni, sarebbe stata “volontariamente” sponsorizzata dalla grossa impresa russa. E i mass media russi, compresa la TV, hanno pubblicato nel frattempo un sacco di materiali provocatori sugli ultranazionalisti “banderovtsy” schierati dalla parte di Yuscenko. Tutti queste accuse peraltro hanno avuto un effetto dirompente, accrescendo in un un numero ingente di ucraini il desiderio di votare. Secondo i sondaggi, dall’80% al 90% dei cittadini ucraini avevano intenzione di recarsi alle urne. Questi indici, messi a confronto con quelli delle elezioni russe che spesso vanno a monte per l’afflusso troppo basso di elettori, appaiono incredibili.
Secondo i dati ufficiali, pubblicati della Commissione statale elettorale, Viktor Yuscenko ha avuto il 46,7% dei voti, e Viktor Yanukovich, il 49,4%.
C’è da notare che sono stati evidentemente organizzati brogli da entrambe le parti: su due regioni, in cui il 90% di popolazione ha votato a favore di Yanukovich, ce ne sono, come minimo tre nelle quali è stato registrato un risultato uguale a favore di Yuscenko. Tutte e due le parti hanno segnalato migliaia di trasgressioni e hanno avviato centinaia di azioni legali.
La guerra in piazza
Nonostante prima delle elezioni Yuscenko avesse giurato che non avrebbe tollerato nessun atto di violenza, il suo entourage, probabilmente ispirato dalla recente “rivoluzione delle rose” in Georgia, ha tuttavia deciso di avviare la realizzazione della “rivoluzione dei castani”.
E quindi, proprio alla vigilia delle votazioni, Viktor Yuscenko, avendo affermato che le autorita’ avevano intenzione di dichiarare Yanukovich Presidente dell’Ucraina indipendentemente dal risultato della votazione, ha invitato tutti i suoi sostenitori a riunirsi alle nove di sera, domenica 21 novembre, sulla Piazza dell’Indipendenza, nel centro di Kiev, dove sarebbero state piantate le tende e in cui sarebbe stato effettuato il conteggio parallelo dei voti. La gente è arrivata, anche se non c’era mezzo milione di persone, bensì, secondo diverse stime, da 30 a 200 mila. Il conteggio dei voti è stato dimenticato abbastanza presto, e si è cominciato a celebrare la vittoria di Yuscenko solo basandosi sui risultati degli exit-poll, la cui esattezza - soprattutto con un distacco minimo fra i voti a favore dei due candidati - è assai discutibile. I sostenitori di Yuscenko si sono messi anche ad accusare il potere di essersi “appropriato” di 3 milioni di voti. Inizialmente l’entourage di Yuscenko sperava che quando sulla piazza si fossero riunite cinquecentomila persone, o almeno tale cifra fosse stata resa nota, le autorità ne sarebbero rimaste intimidite e avrebbero capitolato.
Ciò tuttavia non si è avverato. Sia il Presidente in carica Leonid Kuchma, che Viktor Yanukovich hanno mantenuto il sangue freddo, mentre nei punti strategicamente importanti di Kiev sono comparse autoblinde e forze speciali della polizia.
Dopo aver realizzato che la strategia non avrebbe potuto avere successo, l’opposizione ha scelto un’altra tattica. E’ stato organizzato un sit-in, dichiarando che sarebbe durato fin quando il potere non si fosse arreso. Si sono subito materializzate file di tende, cuochi, ecc. Sulla piazza è iniziato un concerto rock non-stop. Tutte le persone riunite nel centro di Kiev si sono vestite di arancione (il colore dei sostenitori di Yuscenko). Dopo un po’, un’altra mossa: il 24 novembre, l’opposizione ha iniziato l’assedio alle sedi del governo, dei ministeri e della Rada Suprema, minacciando di prenderle d’assalto qualora non venissero soddisfatte le loro richieste, e cioè, l’abolizione dei risultati delle elezioni, la ratificazione della vittoria di Yuscenko, il cambio dei membri della Commissione centrale elettorale, ecc. L’assedio è durato, con brevi intervalli, dal 23 novembre all’8 dicembre Come conseguenza, l’attività di alcuni ministeri è rimasta paralizzata. Nel complesso, alle manifestazioni hanno partecipato a scaglioni decine di migliaia di persone, prevalentemente giovani (compresi gli studenti universitari, che hanno cominciato uno sciopero di massa), il cui desiderio di ottenere giustizia e di partecipare a degli eventi storici è stato strumentalizzato al 100% dal centro elettorale del signor Yuscenko. Com’era già successo nel 1993 a Mosca, verso sera il numero dei manifestanti aumentava: gli abitanti di Kiev andavano “alla guerra” dopo il lavoro, qualcuno per motivi seri, qualcun’altro per spirito gregario. A poco a poco, gli abitanti della capitale, stanchi di stare in piedi al freddo, venivano sostituiti con i provinciali dell’Ucraina occidentale, fatti arrivare a Kiev con dei pullman (secondo alcune informazioni, verso la fine della protesta in piazza, la percentuale dei partecipanti provenienti da fuori citta’ sarebbe arrivato all’80% circa delle presenze): un tale “know-how” in fatto di manifestazioni è stato acquisito dai “colleghi” georgiani. Infatti tutto aveva l’aria di essere stato accuratamente e minuziosamente preparato, assomigliando molto poco ad un moto popolare spontaneo.
Forse tutto si sarebbe ridotto ai disordini nella capitale, se Yuscenko non avesse pensato di subordinare a sé anche il resto del Paese. L’approssimarsi della vittoria ha indotto Viktor Yuscenko ad una mossa che è forse da considerarsi la più insensata di quelle compiute durante il periodo delle proteste: il tentativo di proclamarsi Presidente, intrapreso il 23 novembre. Ciò è sfociato in una farsa, condita di millanteria: nella sala mezzo vuota della Rada, con il microfono staccato, con la mancanza del minimo di quorum necessario, in assenza dei dirigenti della Rada, ritiratisi ostentatamente, il candidato a Presidente ha fatto giuramento sulla Bibbia antica. Subito dopo l’“auto-incoronazione”, Yuscenko ha deciso di creare delle para-strutture governative. Ha dichiarato l’istituzione del “Comitato della salvezza nazionale” e proprio durante un suo comizio si è messo a decretare leggi, esortando alla disubbidienza civile, alla creazione dell’organizzazione “Autodifesa del popolo” e della “Guardia ucraina”. Ancor prima, il municipio di Leopoli aveva dichiarato di riconoscere il potere di Yuscenko. L’hanno riconosciuto anche Ivano-Frankovsk, Ternopol, Luzk, Vinnitsa, alcuni sobborghi di Kiev. Si tratta in maggior parte, comunque, delle città dell’Ucraina occidentale, del così detto Halic, la cui élite politica si distingue per atteggiamenti nettamente antirussi e cerca di realizzare il progetto di costruzione di uno Stato monoetnico e monolinguistico. Dal 24 al 26 novembre, Yuscenko è stato riconosciuto Presidente legittimo dal Consiglio regionale di Leopoli, in cui è stata solennemente alzata la bandiera arancione. Oltre che dalla regione di Leopoli, il leader dell’opposizione è stato riconosciuto Presidente dalle regioni di Volyn, di Ternopol e di Ivano-Frankovsk. Si sono materializzati subito sedicenti governatori che si sono impegnati a seguire tutte le disposizioni di Yuscenko.
In risposta, le regioni meridionali ed orientali che si sono schierate con Yanukovich sono passate al contrattacco. Nelle regioni orientali si sono tenuti comizi pubblici in favore del primo ministro. Anche i sostenitori di Yanukovich ne hanno organizzato qualcuno a Kiev. Ma certamente questi ultimi non hanno attirato così tanta gente quanta ne era riuscito a radunare il “quartier generale” di Yuscenko. E Viktor Turmanov, il presidente del Comitato Centrale del Sindacato dei lavoratori dell’industria carbonifera dell’Ucraina ha minacciato di organizzare una marcia di minatori su Kiev, dichiarando che, una volta entrati i minatori del Donbass a Kiev, i leader dell’opposizione avrebbero visto“tutte le stelle del firmamento”.
Successivamente, una dopo l’altra, le regioni del sud e dell’est si sono messe a decidere per l’autonomizzazione. Così, i sostenitori di Yanukovich ad Odessa hanno dichiarato di aver intenzione di promuovere la trasformazione della regione di Odessa nel territorio di Novorossijsk, a governo autonomo. A Simferopoli, i deputati locali hanno minacciato di tornare a sollevare la questione inerente la propria autonomia, qualora gli “arancioni” avessero continuato le loro manifestazioni.
Il 26 novembre, la sessione straordinaria del Consiglio regionale di Kharkov ha deciso di creare dei comitati esecutivi del Consiglio regionale e dei consigli provinciali, trasferendo ad essi le competenze degli organi di potere statale. Si prevedeva, inoltre, che, qualora la situazione fosse peggiorata, si sarebbe potuto trattare della proclamazione dell’autonomia dei territori sud-orientali, che avrebbero preso il nome di Repubblica autonoma del Sud-Est. Gli organi del Ministero degli interni sono passati al controllo delle amministrazioni locali. Ma forse la mossa più pericolosa, sulla quale ci si è messi a discutere, era quella di bloccare i versamenti obbligatori all’erario pubblico, il che facilmente avrebbe potuto portare l’Ucraina alla bancarotta.
L’apice dei fermenti autonomisti delle regioni del sud e dell’est e, contemporaneamente massima dimostrazione di appoggio a Yanukovich, hanno trovato la loro espressione nella riunione dell’Assemblea ucraina dei deputati del popolo, svoltasi il 28 novembre a Severodonetsk, alla quale hanno partecipato 3576 deputati da 15 regioni.
Di fatto, se paragoniamo la situazione ucraina a quella russa dei primi anni 90, pare che l’Ucraina sia passata in un attimo dal 1991, un anno abbastanza tranquillo, al 1993, e abbia sentito spirare i gelidi venti di una possibile guerra civile. Il fattore della lingua e della confessione religiosa ha diviso il popolo: Yuscenko è stato sostenuto dai cattolici di rito bizantino e dalle chiese ortodosse locali “autonomiste”, mentre con Yanukovich si è schierata la Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca. A questo punto, per salvare la situazione, a Kiev sono arrivati mediatori internazionali importanti: il presidente della Polonia Kwasnevski, il presidente della Lituania Adamkus, il presidente della Duma di Stato della Russia Boris Gryzlov, i commissari dell’Unione Europea e dell’OSCE per la politica internazionale Solana e Kubisu. Di conseguenza, il 26 novembre, presso il Palazzo Marijnski di Kiev sono comiciate le trattative fra le parti interessate. Il giorno dopo è comparsa una dichiarazione in cui le parti si impegavano ad astenersi dall’uso della forza e promettevano di risolvere la crisi solo a mezzo di trattative. Per deteminare se il conteggio dei voti fosse stato corretto, è stato scelto un arbitro, la Corte Suprema dell’Ucraina, la quale ha subito iniziato a subire fortissime pressioni da diverse parti. Inizialmente i giudici hanno impedito la pubblicazione dei risultati delle elezioni, approvati dalla Commissione centrale elettorale. E dopo, il 3 dicembre, hanno preso una decisione che molti hanno definito “salomonica”. La Corte Suprema ha abolito la sentenza della Commissione centrale elettorale relativa ai risultati delle elezioni del Presidente, soddisfacendo anche in parte il reclamo del candidato a Presidente Viktor Yuscenko, che chiedeva di riconoscere non validi i risultati del secondo turno delle elezioni presidenziali, ma, nello stesso tempo, permettendo di ripetere il 26 dicembre il secondo turno delle elezioni presidenziali.
Tutta questa confusione, accompagnata peraltro da previsioni apocalittiche ha avuto pessime ripercussioni sull’economia ucraina, ancora non stabile. La popolazione ha iniziato a chiudere i propri conti correnti presso le banche, per ogni eventualità, e a cambiarli in dollari, euro e rubli. Il divieto della Banca nazionale di prelevare grosse cifre dai conti correnti e di comprare valuta pregiata in quantità rilevante, non ha fatto che alimentare il panico.
Il giocatore più imperturbabile della situazione si è rivelato Leonid Kuchma, il quale, come la maggior parte dei leader postsovietici, non vuole allontanarsi dal potere a nessun costo. La lotta fra i candidati gli ha dato la chance di promuovere una riforma politica ormai quasi dimenticata, che prevedeva un rafforzamento assai notevole del potere del premier che si appoggia alla maggioranza parlamentare. Evidentemente, secondo il sig. Kuchma, tale premier dovrebbe esser lui stesso o qualcuno dei suoi protetti.
Per calmare gli animi e guadagnare terreno per il baratto, Leondi Kuchma e il presidente della Rada Vladimir Litvin, il 29 novembre, hanno fatto approvare dalla Rada un decreto, secondo il quale i risultati del secondo turno delle elezioni sarebbero stati riconosciuti validi. Yuscenko ha chiesto tuttavia, come premessa alla votazione della riforma politica, le dimissioni del governo, il divieto di votare da casa e con schede elettorali per chi va a votare in un luogo diverso da quello di residenza fissa, oltre che il cambio dei membri della Commissione centrale elettorale.
Quasi tutti questi requisiti sono stati soddisfatti, ma in contemporanea sono state approvate delle normative relative alla riforma politica. L’8 dicembre, la Rada, alla riunione straordinaria, ha approvato questi documenti, e Leonid Kuchma, presente in aula, li ha subito firmati. “Quasi tutti”, perché Viktor Yanukovich ha semplicemente deciso di sfruttare le ferie che gli sono concesse di legge, durante le quali non può essere licenziato. Ora nella Costituzione Ucraina è stato inserito un articolo sulla formazione, presso il parlamento, “in seguito ai risultati delle elezioni e in base al coordinamento di posizioni politiche, di una coalizione di fazioni parlamentari, di cui fa parte la maggioranza dei deputati del popolo, e che rappresenta i componenti costituzionali della Rada Suprema” (226 persone). In questo modo, Viktor Yuscenko, per una vittoria tattica, ha seppellito il suo futuro politico. Anche se diventerà Presidente, potrà governare con pieni poteri non più di 7-8 mesi. A dire la verità, però, è il massimo che poteva ottenere. Nel campo di tende sulla Piazza dell’Indipendenza, il cui mantenimento risultava abbastanza dispendioso, era già cominciata un’epidemia di raffreddori. E dopo un po’ a Kiev è arrivato un vero gelo, favorendo l’epidemia di influenza che ha decimato i sostenitori di Yuscenko, com’era già successo nel 1919 con un terzo del gigantesco esercito contadino riunitosi attorno al mitico Nestor Makhno.
Lo stesso Yuscenko si è affrettato a disperdere i suoi sostenitori stanchi, dopo aver proclamato la sua vittoria e la trasformazione dell’Ucraina in uno Stato democratico. Inoltre, ha promesso di consegnare a tutti quelli che stavano sulla Piazza dell’Indipendenza, un certificato attestante la partecipazione alla resistenza ucraina. Coloro che vorranno ricevere tale certificato probabilmente saranno così tanti che vien voglia di ricordare una vecchia barzelletta rumena a proposito dei partecipanti all’abbattimento di Ceausescu: “Erano pochi, ma sono rimasti in molti”. La notizia della “grande vittoria”, riferita da Yuscenko, ha suscitato l’esultanza degli “arancioni”, stanchi di rimanere in piedi nelle piazze e nelle strade della capitale. Nella Piazza dell’Indipendenza è cominciata una festa vera e propria. Tuttavia, non tutti i sostenitori di Yuscenko giubilavano. Yulia Timoscenko, che forse sperava di tornare a governare, durante vari comizi ha espresso giudizi pessimisti sulla riforma politica, che ha deluso le sue aspettative: è chiaro, infatti, che la maggior parte dei deputati non le affiderà nessun posto importante dopo aver lei definito “traditori” tutti i parlamentari non schierati con Yuscenko. La Timoscenko ha detto che non avrebbe permesso “al Presidente di rimettere ordine nel Paese”.
Va notato che Leonid Kuchma ha continuato a manovrare e negoziare fino all’ultimo momento. Si è cominciato a capire che Kuchma prendeva le distanze dal suo “erede” già il 29 novembre, il giorno in cui si è dimesso inaspettatamente Serghei Tighipko, il capo del centro elettorale di Yanukovich. Tighipko ha lasciato anche il posto del direttore della Banca nazionale del Paese. Di conseguenza, Kuchma si è fatto attaccare da entrambe le parti. Violando gli impegni assunti il 6 dicembre, il giorno dopo ha accettato di concedere le ferie a Yanukovich, invece di silurarlo, come richiedeva l’opposizione alla Rada; di conseguenza, è andata a monte l’approvazione degli emendamenti alla Costituzione. E Taras Ciornovil, il successore di Tighipko al posto del capo del centro elettorale di Yanukovich, ha detto che il Presidente dell’Ucraina “è disposto a sostenere il leader dell’opposizione Viktor Yuscenko”. E, in effetti, Leonid Kuchma, spaventato dal sostegno che forniva a Yanukovich una parte dell’élite, ha quasi tradito il suo candidato. Dopo l’approvazione della legge sulla riforma politica Kuchma ha accennato in modo abbastanza chiaro al fatto che Yanukovich dovesse ritirarsi dalla gara elettorale. Il premier, tutto sommato, poteva accettare questa proposta, ma a una condizione: che lo facesse anche il suo avversario. Yuscenko naturalmente non ha voluto ritirarsi, anche perché il suo ritiro sarebbe diventato un vero disastro per l’opposizione, dato che non è possibile trovare un altro candidato capace di conciliare almeno per un po’ di tempo i gruppi in continuo disaccordo tra loro.
Il campo di battaglia
Data l’innegabile importanza dell’Ucraina nella ricostituzione, in qualche forma, della zona di influenza russa sul territorio dell’ex URSS, il Paese è diventata un campo di battaglia tra la Russia, l’Unione Europea e gli USA. Le parti si sono aspramente criticate a vicenda, gli uni accusando gli altri di applicare “due pesi e due misure” e di favorire le violazioni dei diritti umani.
Per osservare il secondo turno delle elezioni presidenziali, a Kiev sono arrivati rappresentanti speciali dei Presidenti della Russia e degli USA, il presidente della Duma di Stato Boris Gryzlov e Richard Lugar, presidente del comitato del Senato per i rapporti internazionali.
Le dichiarazioni degli osservatori occidentali e russi si sono rivelate completamente contrastanti. I russi e i rappresentanti dei Paesi della CSI, capeggiati da Rushailo, il segretario esecutivo della CSI, hanno sostenuto che le elezioni fossero legittime, mentre i rappresentanti dell’OSCE già il 22 novembre avevano affermato che le elezioni non corrispondevano ai criteri europei di trasparenza. Colin Powell, il segretario di Stato degli USA, a sua volta, ha sostenuto che non fossero conformi agli standard internazionali e pertanto non potessero essere riconosciute legittime. E Lech Walensa, l’ex presidente della Polonia, arrivato a Kiev come mediatore, ha detto di essere sicuro della vittoria dell’opposizione ucraina, “benedicendo” i partecipanti alla manifestazione sulla Piazza dell’Indipendenza, terminando così la sua missione di mediazione. La dichiarazione più dura sulla falsificazione delle elezioni è stata fatta da Lugar, che le ha definite “una potente e coordinata campagna di brogli e violazioni nel giorno delle elezioni”. (Va rilevato peraltro che gli USA hanno ottenuto dai deputati “arancioni” della Duma un ringraziamento assai strano: praticamente tutta la Rada ha votato a favore del ritiro del contingente ucraino dall’Iraq).
Hanne Severinsen, relatore dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio europeo per i problemi dell’Ucraina, ha detto che avrebbe insistito sulle sanzioni contro l’Ucraina, qualora l’andamento della votazione in generale, e, in particolare, nella regione di Donetsk, non venisse indagato, e ha promesso che il monitoraggio delle elezioni passate e della situazione attuale non sarebbe stato sospeso.
D’altra parte, la posizione dei russi è stata a dir poco ferrea. Boris Gryzlov, il presidente della Duma di Stato della Russia, si è congratulato con Viktor Yanukovich per la vittoria alle elezioni presidenziali, senza aspettare la fine del conteggio dei voti. Più tardi lo stesso Gryzlov, invitato in Ucraina come mediatore, ha dichiarato Yanukovich essere il vincitore legittimo delle elezioni presidenziali e che pertanto la questione del vincitore delle elezioni ucraine non doveva essere oggetto di discussione. Anche quando la Rada Suprema ha preso la decisione relativa alla “rivotazione” e alla riforma politica, Gryzlov ha continuato ad affermare che il processo “postelettorale” in Ucraina andava oltre i limiti della legalità, e che i sostenitori di Yuscenko avevano esercitato violente pressioni sulle autorità governative. E’ difficile che il rapporto fra la Russia e i sostenitori di Yuscenko possa migliorare dopo aver Gryzlov affermato: “Quando uno si auto-proclama Presidente, ciò è da considerarsi un imbroglio”.
In seguito ai risultati del conteggio preliminare, ha fatto le proprie congratulazioni a Yanukovich anche Putin, e per ben due volte, trovandosi così in compagnìa di “bat’ka” Lukascenko e del dittatore uzbeko Karimov. Dopo la prima delle due congratulazioni, fatta ancor prima della pubblicazione dei risultati delle elezioni, Yurij Ushakov, l’Ambasciatore russo negli Stati Uniti è stato invitato al Dipartimento di Stato, presso il quale gli hanno “espresso vivo rammarico per il comportamento del sig. Putin”. Più tardi Putin ha addirittura ricevuto a Mosca Leonid Kuchma, esprimendo solidarietà al collega ucraino, gli sforzi del quale mirano alla “salvaguardia dell’incolumità dello Stato”. Il Presidente russo si è anche opposto alla rivotazione: “Si può rivotare per la terza, per la quarta, per la venticinquesima volta, finché una delle parti non ottenga i risultati che le servono”, ha detto lui, appoggiando l’idea delle nuove elezioni.
Vladimir Putin ha rilasicato una dichiarazione durissima, riguardante l’Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa (OSCE), nella quale accusava gli osservatori della stessa di applicare “due pesi e due misure”, avendo infatti in precedenza riconosciuto libere e democratiche le elezioni in Afganistan e in Kosovo. “Posso già dire in anticipo, quali saranno le conclusioni degli osservatori dell’OSCE riguardo alle elezioni in Iraq”, ha sottolineato Putin. “Se l’OSCE sarà usata anche in futuro per raggiungere certi obiettivi politici, perderà la sua autorevolezza a livello internazionale”, ha affermato lui e ha aggiunto che la “Russia non può tollerare una simile evoluzione della situazione, anche se qualcuno la volesse definire “democrazia””.
E la riunione dei ministri degli esteri dell’OSCE a Sofia è finita in uno scandalo quasi senza precedenti. Le divergenze tra Serghel Lavrov, il Ministro degli esteri russo, e il suo vis-à-vis erano così notevoli che le parti non sono riuscite a trovare un accordo sul testo del documento finale. Lavrov, in particolare, ha detto che l’OSCE “non solo sta perdendo il proprio ruolo di forum internazionale che riunisce gli Stati e popoli, ma, addirittura comincia a contribuire al loro allontanamento”. Ha proposto di articolare “una serie di parametri di valutazione obiettivi universalmente applicabili nello spazio dell’OSCE”, per non trovarsi in futuro di fronte alla cosiddetta politica “di due pesi e due misure” nella stima dei processi elettorali.
In risposta, il Segretario di Stato degli USA Colin Powell ha dichiarato di non essere assolutamente d’accordo con quanto aveva detto Lavrov, sostenendo che l’Ucraina meriti delle elezioni oneste. “Non competiamo tra noi, né siamo in lotta per questi territori”, ha detto, e ha aggiunto: “Non è una questione di sfere di influenza, si tratta di dare o meno al Paese il diritto di fare una scelta, una scelta di metodi di governo, una scelta di amicizie”. Da notare la menzogna da entrambe le parti, perché sia la Russia che gli USA avevano sostenuto in Ucraina le forze politiche avversarie con tutti i mezzi a loro disposizione. Di conseguenza, molti si sono messi a parlare di un revival della “pace fredda”, che esisteva fra la Russia e l’Occidente alla fine degli anni 90.
Si è arrivati infine all’approvazione della dichiarazione congiunta di Russia e NATO del 9 dicembre. La dichiarazione punta sulla necessità di evitare qualsiasi ingerenza negli affari interni dell’Ucraina, di rispettare la sovranità e l’integrità territoriale di questo Paese, le sue leggi e la sua Costituzione. “E’ indispensabile,” si afferma nella dichiarazione, “che gli ucraini stessi risolvano tutti i problemi insorgenti secondo le leggi ucraine, ed è inammissibile qualsiasi violenza, intimidazione e istigazione”.
Va notato che la dura reazione da parte dei russi è stata suscitata soprattutto dall’attività degli USA e dell’UE in Ucraina, a loro opinione estremamente intensa, percepita come volazione di quel patto implicito che vede il territorio dei Paesi della CSI rimanere una zona di interessi vitali per la Russia.
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