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Numero 4(103)
Il capitale alla ricerca della stabilita’
Incerta, in Russia, la sorte del dollaro
La caduta della moneta verde potrebbe aumentare l’inflazione


    L’enigma di Greenspan non è risolto. La proposta della Camera pubblica di vietare ai funzionari statali russi di menzionare i nomi delle valute estere è sintomatica. Indipendentemente dalle menzioni, infatti, la nostra economia è agganciata al cambio del dollaro, e più generalmente, alla disposizione economica degli USA, in modo così solido, che il problema non può essere risolto mediante i divieti. E di ciò bisognerà prendere atto, magari introducendo qualche eufemismo, come “quelli lì” oppure “la loro valuta benedetta”.
    La colpa è della Banca Centrale? Questo il riassunto della vicenda: ai primi di aprile di quest’anno, la società di investimenti “Renaissance-Kapital” ha messo in subbuglio il mercato con la previsione di un rapido e radicale rafforzamento del rublo dei confronti del dollaro, fino alla quota del 1999, e cioè, fino a 26-26,5 rubli al dollaro. La logica degli analisti appare convincente soprattutto adesso, quando nel mercato internazionale del petrolio è ripreso il trend di crescita dei prezzi -all’inizio di aprile essi avevani già varcato la soglia di 70 dollari al barile-. Si sa che il ricavo in dollari ottenuto dagli esportatori russi viene acquistato dalla Banca Centrale, le cui riserve auree valutarie poco fa hanno superato i 200 miliardi di dollari. In tale maniera, la Banca Centrale frena il rafforzamento del rublo al fine di prevenire la così detta malattia olandese, la situazione in cui le importazioni delle merci diventano più interessanti della loro produzione all’interno del Paese. Ma, come osservano giustamente gli esperti, oggi lo scopo prioritario del Governo è quello di trattenere l’inflazione, e il rafforzamento del rublo è uno dei mezzi sicuri per raggiungere quest’obiettivo. Secondo le stime di Serghej Ignatiev, il direttore della Banca Centrale, 1% di rafforzamento del rublo comporta circa lo 0,3% di riduzione dell’inflazione. Ma dall’inizio dell’anno il rublo si è già rafforzato nei confronti del dollaro del 2,5%, fino a raggiungere la quota di 27,7 rubli al dollaro, e la Banca Centrale ha dichiarato che per la fine dell’anno non si prevedono ulteriori rafforzamenti. In altre parole, nello stabilire il cambio dollaro/rublo, il regolatore del mercato valutario russo si baserà solo sul rapporto tra il dollaro e le valute principali suel mercato internazionale FOREX.
    Gli analisti ipotizzano che questa promessa non possa essere mantenuta, e che sotto le pressioni del Governo la Banca Centrale permetta al dollaro di scendere rapidamente. Per ora si tratta solo di un’ipotesi audace, e per renderla più credibile, la previsione apporta gli estratti dal resoconto dell’agenzia internazionale di rating Standard & Poor’s pubblicato all’inizio di quest’anno, in cui uno degli scenari concerneva il calo del dollaro rispetto all’euro del 45%, qualora “le Banche centrali di Cina e Giappone, che comprano attivamente i buoni del tesoro statunitensi smettano di farlo”.
    Se tale scenario si realizzerà davvero, il calo del dollaro rispetto al rublo sarà inevitabile, e non fino a 26 rubli al dollaro, ma ben oltre questa quota. Tuttavia bisogna ricordare che il resoconto della Standard&Poor’s è stato compilato alla fine dell’anno scorso, quando l’economia degli USA dimostrava un rallentamento dei tassi di crescita. Nei primi tre mesi di quest’anno, la situazione e le opinioni in merito alle prospettive del dollaro sono cambiate notevolmente.
    I problemi dell’economia statunitense. Dall’inizio del 2006 i tassi di crescita dell’economia americana sono accelerati bruscamente. Secondo gli esperti, il PIL del Paese sarebbe aumentato nel primo trimestre almeno del 4,5% annualizzato, il che supera circa di tre volte i tassi di crescita della fine dell’anno scorso (1,6%). È interessante notare come tale accelerazione abbia luogo in condizioni tutt’altro che favorevoli.
    Il primo fattore concerne il brusco rincaro delle risorse industriali, la più importante delle quali, il petrolio, viene importata dagli USA. Ma in un anno, dalla primavera del 2005, l’imprenditoria è riuscita ad adattarsi al raddoppio dei prezzi del petrolio e, quel che conta di più, lo spostamento da 30 a 60 dollari al barile non ha avuto quasi nessun effetto sugli indici basilari dell’inflazione. Certamente, negli USA cresce di prezzo la benzina, ma per ora ciò non rende più care altre merci. L’indice dei prezzi relativo alle spese di consumo (senza considerare i prezzi dell’energia e dei generi alimentari), che è l’indicatore dell’inflazione usato come riferimento dalle autorità finanziarie, dimostra, in media, un incremento dell’1,8% rispetto al 3% dei precedenti 20 anni.
    Il secondo fattore che influisce sulla situazione economica è l’aumento del costo del denaro. Da giugno del 2004 il Federal Reserve System statunitense ha alzato 15 volte il tasso relativo ai “fondi federali”, e l’ha incrementato dall’1% al 4,7% di interesse annuo. Il tasso del FRS è il tasso base overnight, che è un punto di riferimento per tutto il sistema finanziario del Paese. Il suo aumento comporta l’aumento del costo di tutti i crediti, e quindi, l’indurimento delle condizioni per il business e il rincaro degli schemi ipotecari per la popolazione. Le aziende americane e i cittadini praticamente subiscono pressioni da due parti: crescono sia le spese del carburante, sia il pagamento per qualsiasi tipo di prestito.
    Ma il FRS non ha mai dato al mercato motivo per ritenere troppo difficile la situazione venutasi a creare e dalla sua parte non ha ridotto il pressing. Di conseguenza l’economia, trattata anche nelle nuove condizioni come sana, sta benino: aumentano i redditi della popolazione e, quel che è altrettanto importante, si sta riducendo la disoccupazione (dal 4,8% al 4,7%). Si stanno riducendo le vendite nel settore dell’edilizia civile, il che è assai naturale, ma sta crescendo il giro d’affari nel settore dei servizi. Ovviamente, tutti gli ultimi sintomi positivi si manifestano sullo sfondo dell’aggravamento di “malattie croniche”, a partire dall’aumento del deficit budgetario, il quale appare una realtà più politica che economica, fino all’aumento del deficit della bilancia dei pagamenti, che può avere un effetto diretto sul cambio del dollaro.
    Nel 2005, il deficit della bilancia dei pagamenti è ammontato a 804,9 miliardi di dollari (il 6,4% del PIL, una cifra record), rispetto ai 668 miliardi di dollari (il 5,7% del PIL) del 2004. Il suo elemento importante, il deficit della bilancia commerciale, cresce insieme al brusco aumento del costo del petrolio e di altre risorse industriali. Per ora tutto il deficit viene finanziato con le vendite degli attivi americani, come azioni, obbligazioni ed immobili. Lo fa capire regolarmente Ben Bernanke, il nuovo presidente del FRS statunitense. A sua detta, le poche potenzialità d’investimento all’estero, nei confronti degli USA, comportano l’aumento dei risparmi in altri Paesi. E visto che negli USA si registra una crescita economica sana e i tassi d’interesse sono più alti, gli investitori internazionali preferiscono investire negli attivi statunitensi.
    L’enigma maggiore della crescita. Il totale degli acquisti dei titoli americani, compresi i buoni del tesoro, US Treasuries, da parte dei non residenti, secondo i dati relativi all’anno scorso è ammontato a 868 miliardi di dollari, rispetto ai 133 miliardi di dollari del 1995. In altre parole, il totale degli investimenti annui è aumentato di più del 600%, mentre l’economia statunitense, nello stesso periodo, è cresciuta, come massimo, del 70%. I dati complessivi inerenti al primo trimestre del 2006 non ci sono ancora, ma durante le ultime aste relative agli US Treasuries la quota parte degli acquisti dei non residenti (comprese le Banche centrali degli altri Stati) non diminuisce, varia sempre dal 35% al 50%. Questa stabilità diventa ancora più sorprendente considerato il comportamento inspiegabile della redditività delle obbligazioni a lungo termine, di dieci anni.
    Negli ultimi due anni, con la crescita del tasso d’interesse a breve termine negli USA del 3,75%, questo valore praticamente non è mai cambiato, e solo negli ultimi mesi ha aggiunto lo 0,5% al 4,5%, il valore di prima. Dal punto di vista della teoria economica, si tratta di un paradosso pericoloso. Infatti, il principio n.1 dell’economia in crescita è questo: “il dollaro di oggi è più caro del dollaro di domani”. Ora invece risulta che per gli investitori, al dollaro di oggi è praticamente equivalente il dollaro che riceveranno fra 10 anni. Alan Greenspan, l’ex presidente del FRS, che ha occupato questa carica per un quarto di secolo, ha definito questa situazione con una bella parola: “conundrum”, ossia “enigma”, e a gennaio di quest’anno si è ritirato in pensione. Il suo successore, Ben Bernanke, nel suo discorso di marzo, ha ammesso anche lui di non capire come mai la redditività abbastanza bassa dei titoli a lungo termine continui a soddisfare gli investitori, ma per ogni eventualità ha alzato il tasso del FRS di un altro 0,25%.
    Il momento attuale è particolarmente critico perché il tasso per i Treasuries di 10 anni è diventato praticamente uguale al tasso del FRS, e visto che quest’ultimo, ai primi di maggio, verrà alzato dello 0,25%, potrebbe essere anche più basso. Gli esperti oggi discutono abbondantemente l’argomento. Il fatto è che dal 1970 tale situazione si è registrata 6 volte, 5 delle quali, in seguito all’ottenimento della dissonanza dei tassi, l’economia degli USA è entrata nel giro di un anno in recessione. Ma la leadership finanziaria del Paese per ora non si fa abbindolare dalle superstizioni. Per ora non si sa se la rapida crescita verrà succeduta dalla recessione, ma è ormai possibile affermare che il FRS, sul piano tattico, è disposto a sacrificare anche la crescita economica, per non permettere l’aumento dell’inflazione neanche di una frazione percentuale.
    Cos’ha la Russia, oltre al dollaro? Il mondo, certamente, è stanco dell’unipolarismo politico, come del dominio di una sola valuta. Da tempo si cerca un’alternativa al dollaro. Il 2004 è stato l’anno dell’impennata dell’euro nei confronti del dollaro (fino a quota 1,37), ma già nel 2005 il dollaro si è facilmente preso la sua rivincita. L’Europa cede il passo agli USA rispetto a tutti i parametri economici: la crescita annua media del PIL nella zona dell’euro è di circa 2 volte inferiore rispetto a quella americana (l’1,5% contro 3,1%), mentre la disoccupazione è più alta di quasi 2 volte (l’8,4% contro il 4,7%). Il tasso per le obbligazioni statali statunitensi supera dell’1% il tasso relativo ai rispettivi titoli europei. Ma l’essenziale è che per gli investitori internazionali, l’Europa continua a rappresentare un insieme eclettico di nazioni ed economie con grossi problemi strutturali. Le prospettive dell’euro sono indubbiamente buone, come quelle del rublo e dello yuan, ma il guaio è che esse riguardano un futuro lontano, mentre il capitale internazionale è estraneo al patriottismo.
    Oltre alle valute e i titoli di Stato, ci sono anche i mercati delle merci. Ad esempio, l’aumento dei prezzi dei metalli preziosi verificatosi negli ultimi anni è dovuto non tanto alla crescita dell’economia internazionale, quanto all’intenzione di vari fondi, quelli d’investimento, assicurativi, pensionistici, di diversificare gli attivi. Il prezzo dell’oro è aumentato del 18% durante lo scorso anno, e già di più del 20% dall’inizio del 2006, avendo superato, nei primi di aprile, la soglia psicologica di 600 dollari per un’oncia troy. Ma l’oro come metallo in grosse quantità serve ad un investitore non più che il dollaro come pezzo di carta. La vulnerabilità del mercato delle merci consiste nella dipendenza dal consumatore reale della merce: se lui riduce bruscamente gli acquisti con dei prezzi esagerati, crolla tutta la “piramide”.
    La forza del dollaro non deriva neanche dal fatto che gli USA siano un Paese che vanta un’economia più solida, ma dal fatto che tramite “aggiustamenti” durati diversi anni, vi è stato creato un valore denominato “stabilità finanziaria”, per quanto sia possibile parlare di una qualsiasi stabilità nel nostro mondo. L’economia degli USA, a differenza di molte altre, non è “una scatola nera” per gli investitori, ma un sistema perfettamente messo a punto. I suoi componenti sono il mercato dei titoli, le statistiche regolari e dettagliate aperte al pubblico, nonché la regolamentazione statale che attua politiche dure e soprattutto coerenti. Creare un sistema del genere è un processo molto lungo. Una soluzione più rapida e sicura consiste nel vietare semplicemente la menzione delle parole sgradevoli e dei problemi irrisolti che cosi penosamente gravano sulla travagliata economia russa.

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