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Numero 1(106)
Si torna al freddo
Si riguastano le relazioni Russia-Occidente. La Russia accusata di imperialismo, gli Stati Uniti di voler fare di nuovo i gendarmi; e l’Europa è sempre meno conciliante


    A partire dal 2000 le relazioni tra la Russia e l’Occidente erano migliorate, vuoi anche a seguito della lotta congiunta contro il terrorismo. Negli ultimi anni stanno invece peggiorando, a causa tutto sommato di incomprensioni. Gli esponenti dell’élite di governo russa, religiosamente convinti del fatto che i Paesi della CSI siano ancora “zona russa”, non riuscivano a capire come mai l’Unione Europea e gli Stati Uniti, invece di accettare le proposte relative alle “trasformazioni geopolitiche” che avvenivano qualche anno fa, sostenessero invece le così dette “rivoluzioni colorate”, che sottraggono alla sfera di influenza della Russia un Paese dopo l’altro e bloccano le iniziative mirate al ripristino dell’influsso russo nel territorio dell’ex URSS. Inoltre, i miliardi dei petroldollari che hanno rafforzato notevolmente l’economia nazionale hanno permesso alla leadership russa di porre in essere la questione inerente al ritorno del proprio Paese nel “concerto delle grandi potenze”. Gli esponenti dell’Occidente, da parte loro, hanno osservato sconcertati i tentativi della leadership russa di instaurare una cooperazione con l’Iran e con diversi regimi ed organizzazioni radicali arabi, le sue aspirazioni a potenza globale ed il suo intento di “accorpare” i Paesi vicini mediante i prezzi del gas.
    Queste divergenze, nonché la risoluzione di parecchie questioni per le quali la Russia ha dovuto trovare un accordo con gli Stati Uniti (la più nota di esse, quella dell’ingresso nel WTO, è stata risolta a novembre del 2006) hanno spinto la Russia a mettersi (almeno a parole) a confronto con questi ultimi, imponendosi sempre di più come giocatore primario e non d’equipe all’interno dell’arena politica internazionale. L’introduzione di sanzioni da parte del Dipartimento di Stato statunitense operata a gennaio del 2007 contro tre fabbriche di armi russe sospettate di cooperare con l’Iran e la Siria è stata interpretata dai russi come un atto di concorrenza sleale (anche se in realtà le sanzioni sono piuttosto simboliche, poiché nè Stati Uniti, nè Paesi della Nato acquistano armi russe), e i politici russi hanno commentato l’argomento in questione rispolverando termini ormai quasi dimenticati, come “il gendarme mondiale”.
    Non ha contribuito al miglioramento dei rapporti neanche la dichiarazione degli Stati Uniti riguardo all’idea di collocare in Polonia e nella Repubblica Ceca un radar e delle testate antimissile. E sebbene Washington abbia più volte assicurato a tutti pubblicamente che si tratta di una contromisura al programma missilistico iraniano, la dislocazione stessa del radar, che permette di “monitorare” anche la parte europea della Russia, ha fatto sospettare ad alcuni politici russi che gli Stati Uniti vogliano premunirsi anche contro eventuali attacchi nucleari da parte della Russia. Non è neanche detto, poi, che i missili vengano effettivamente collocati: i polacchi e i cechi infatti non smaniano all’idea di avere sul territorio basi militari di questo genere, poiché temono, nell’eventualità di un conflitto, che il loro territorio si trasformi in obiettivo di guerra di entrambi le parti ostili. Il collocamento potrebbe essere mandato a monte anche dalle richieste esagerate dei governi dell’Europa dell’Est, che già adesso chiedono agli USA l’abolizione del regime dei visti per i cittadini dei loro Paesi, supporto finanziario e fornitura di armi missilistiche americane. Che i missili vengano o meno installati, di fatto sono già al centro di una guerra propagandistica d’immagine tra Bush e Putin, mirata a stabilire chi sia il leader più deciso.
    I rappresentanti dell’Occidente, da parte loro, sono seccati dai tentativi da parte della Russia di “chiudere” certi settori della propria economia nazionale. In conformità ad un nuovo disegno di legge russo, fra nuovi comparti strategici dell’economia nazionale ci sarebbero la produzione di impianti speciali, di armamenti e di materiali bellici, di acciaio e leghe speciali, l’industria aeronautica, l’attività spaziale, il settore energetico nucleare, lo sfruttamento di zone del sottosuolo di importanza federale: in tutto circa 40 settori. In particolare, i giacimenti strategici prevedrebbero scorte di petrolio pari ad oltre 70 milioni di tonnellate di petrolio, ad oltre 50 miliardi di metri cubi di gas e ad oltre 500 tonnellate di rame. Secondo le autorità russe, la “chiusura” di questi settori, come anche la comparsa di elenchi di aziende strategiche, a cui gli stranieri non possano accedere in nessuna circostanza sarebbe da interpretare come una risposta agli atti normativi approvati in alcuni Paesi dell’Unità Europea che vietano alla Gazprom di partecipare all’acquisto di società locali (gli europei si giustificano dicendo di temere il riscatto da parte della potente compagnia).
    Un altro evento che ha suscitato l’irritazione (se non persino, diciamolo, orrore mal celato) degli Stati Uniti è stato il tentativo della Russia di ottenere l’implementazione dell’“OPEP del gas” e di instaurare una cooperazione con i più importanti Paesi produttori di petrolio. Nell’ambito di questa strategia politica, Vladimir Putin ha effettuato, ai primi di febbraio, un viaggio lampo per i Paesi della penisola arabica, e ha visitato il Paese produttore n. 1 al mondo di petrolio, l’Arabia Saudita, oltre che l’emirato Quasar, il più importante produttore di gas, e la Giordania. È stata intavolata una trattativa mirata alla cooperazione tra le società russe di produzione del petrolio e dell’Algeria, il secondo più grande esportatore di gas in Europa. L’Unione Europea ha risposto con forti pressioni sulla Russia per costringerla a ratificare la Carta energetica che aprirebbe a compagnie straniere l’accesso al sistema del trasporto del gas russo, e che eliminerebbe il monopolio delle esportazioni posseduto dalla Gazprom. Alla riunione di gennaio dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, è stato addirittura ascoltata una relazione dal titolo “Minaccia dell’uso delle forniture di idrocarburi come strumento di pressione politica”. In tale sede è stata approvata anche una mozione assai dura, secondo la quale sarebbe “nell’interesse di tutti i Paesi membri cercare di aprire alla concorrenza interna ed estera il sistema di travaso del gas, assicurando, in tal modo, investimenti sufficienti all’estrazione del gas e al suo travaso, al fine di coprire i bisogni interni e realizzare gli impegni di esportazione”. In Occidente si teme che qualora sorga un secondo cartello, i produttori possano imporre le loro condizioni (comprese quelle politiche) ai Paesi consumatori. La Russia intanto non dice definitivamente né sì, né no, cercando di costringere i suoi partner occidentali ad innervosirsi il più possibile, e a proporre le condizioni migliori alle aziende russe. La formazione del cartello, per gli esperti, sarebbe tuttavia difficilmente realizzabile: i membri potenziali dello stesso fra non molto potrebbero già trovarsi impegnati in una dura concorrenza per qualche mercato.

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