Numero 2(66)
Il cappello come oggetto di vita e d’arte
La Galleria Tretiakov ha aperto una mostra che presenta le pitture provenienti dai depositi del museo e accomunate da una caratteristica: tutte raffigurano copricapi.
I cappelli presentati sulle tele sono vicini, nello spazio della mostra, ai cappelli veri e propri pervenuti dal Museo storico e da collezioni private. La Galleria Tretiakov fa vedere agli uomini ed alle donne dal capo scoperto odierni, uno spettacolo bello e nostalgico che parla dei tempi in cui i cappelli non solo coprivano la testa, proteggendola da effetti atmosferici, ma erano un indicatore del gusto e un simbolo di una certa posizione nella società.
In Russia, l’epoca del cappello durò dal Settecento ai primi del Novecento: da Pietro I alla rivoluzione d’Ottobre. Di conseguenza, anche la maggior parte delle pitture presenti alla mostra si riferiscono allo stesso periodo: dal ritratto impietrito, un po’ da bambola, da gala della metà del Settecento, fino alle nature morte di Gonciarova e di Koncialovski. Fanno parte di quest’epoca sia Tropinin, sia “Una sconosciuta” di Kramskoi, sia i pittori del “Mondo d’arte”, sia “Un gruppo familiare”, dipinto su tela cerata, di Pirosmani.
Oggi un cappello spicca in una folla, magari, come nei tempi di Puskin spiccava un capo scoperto: infatti, per quasi tutto il Novecento un copricapo si riteneva “un oggetto di uso quotidiano borghese”, il quale veniva respinto o sostituito da berretti e da fazzoletti da testa. Anche nella vita quotidiana sovietica, però, un cappello da donna è rimasto vivo: lo dimostrano bellissime opere di Tatiana Mavrina e Aleksandr Osmerkin. E la vetrina assai realistica di un negozio di cappelli, dipinto da Juri Zlotnikov nel 1956, sarà una sorpresa per coloro che conoscono il pittore solo dalle “strutture di segnali”: le tele con le file di punti identici. Con la “Vetrina” finisce la linea cronologica: è il quadro più “giovane” della mostra. In tutto sono esposte settanta tele, circondate da cappelli storici e cilindri, nonché da cappelli fantastici, creati da Serghei Paragianov, e dalle opere dei designer di oggi.
Le mostre unite da un argomento di trama o da un motivo formale, rappresentano una nuova tendenza nella museificazione russa. In questo campo hanno già creato qualcosa d’importante il Museo russo con il Centro di belle arti di Mosca, nonché la galleria “Kovceg”. Partendo da qualsiasi argomento che esista nell’arte da secoli, i curatori possono scegliere il materiale che vogliono presentare loro stessi in una mostra. Di conseguenza, le mostre risultano più facili da vedere e stilisticamente complete.
Il criterio della scelta delle opere per questa mostra rimane comunque poco chiaro, nonostante gli sforzi fatti per ordinare l’esposizione. Basta avere “conoscenza di cappello” dei depositi della Galleria Tretiakov per ipotizzare che il numero di quadri esposti potesse essere assai maggiore e, tutto sommato, gli organizzatori della mostra fanno bene a limitare la loro quantità, salvando la mostra dal sovraccarico. Ma si si domanda, poi, che cosa e come dev’essere collocato nello spazio del museo. Sembra che il criterio prevalente della scelta sia stato quello di una bella collocazione (le opere presenti sono collocate veramente bene), mentre le divisioni tematiche, accompagnate da spiegazioni critiche e aggiunte a posteriori sono solo un omaggio pseudoscientifico alla serietà della Galleria. Di conseguenza, i testi che dovrebbero spiegare i contenuti non fanno che confondere il pubblico, cercando di giustificare la mancanza di un filo cronologico. Anche questo fa parte delle nuove tendenze nel mondo delle mostre: la motivazione concettuale compete con le stesse opere nella conquista dell’attenzione del pubblico. Il numero delle opere diminuisce e i testi esplicativi diventano sempre più lunghi. Dai testi, del resto, è possibile ricavare molti fatti interessanti: quello, ad esempio, che spiega l’etimologia dell’espressione russa “delo v shliape”, cioè, letteralmente, “la cosa sta nel cappello” (= “siamo a cavallo!”). L’espressione risale al XVI secolo e deriva da una procedura legale di quell’epoca: durante i processi giudiziali, in un cappello si mettevano delle palline di cera, e la causa veniva vinta dal proprietario della prima pallina estratta dal cappello.
Il cappello, ossia, seguendo la definizione del famoso dizionario di Vladimir Dal, “il coperchio del capo” è un oggetto interessantissimo di per sé. No, non invitiamo nessuno a coprire subito il capo con paglia italiana e piume di struzzo. In tutti i tempi, rimane comunque più importante ciò una testa ha dentro e non quello che vi è sopra. Ma per divertirsi, si possono vedere i copricapi con gli occhi dei famosi pittori russi.
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