Numero 9(73)
Pase lontana
E’ questa la situazione in cui oggi si sono venute a trovare le truppe d’occupazione in Iraq. Quasi ogni giorno le agenzie di stampa internazionali comunicano che in questa o quella città irachena una colonna di soldati americani è stata bombardata, o sono state attaccate le sentinelle, ecc.
Negli agguati poi cadono sia gli americani che gli inglesi, che in seguito ad un agguato del genere hanno perduto sei incursori in una sola volta. In tutto, da quando è caduta Baghdad, gli alleati hanno perso più di 100 soldati. Oltre ai britannici ed agli americani, i sostenitori di Saddam uccidono anche gli iracheni che si sono messi a lavorare per il nuovo Governo. Il petrolio iracheno, così ambito da tutti, praticamente non viene esportato: i giacimenti sono fermi, gli oleodotti vengono fatti saltare in aria. Lo scontento della popolazione cresce anche perché gli americani non riescono a domare il caos che regna nelle città.
Verso la fine di giugno poi è diventato chiaro che Saddam Hussein non è morto, ma si trova da qualche parte in Iraq, e di la’ coordina la resistenza. Ciò è stato dimostrato un’altra volta da una cassetta con la registrazione di un suo appello, pubblicata ai primi di luglio. “Mi mancate, anche se sono in mezzo a voi”, dice l’uomo dell’audiocassetta.
“Rimaniamo fedeli a quanto abbiamo promesso. Abbiamo sacrificato il potere, ma rinunciamo a sacrificare i nostri principi”, dice Saddam Hussein. Secondo la dichiarazione dell’ex leader iracheno, “le cellule della Jihad vengono formate in tutto il Paese, su vasta scala”.
Rivolgendosi agli iracheni, Hussein li esorta a non aiutare “gli occupanti infedeli” e a sostenere i partigiani che attaccano i soldati americani.
In seguito a queste dichiarazioni, decine di migliaia di iracheni che conoscono bene la ricca fantasia del loro ex Presidente si sono dati al panico, e ora molti di loro cercano di indovinare che altro potrà inventare questo irreperibile Hussein.
I metodi in cui questi problemi vengono affrontati non sono poi tanto diversi da quelli praticati dall’esercito russo in Cecenia. Così, dopo la morte di sei incursori, i comandi britannici si sono rivolti agli abitanti della città Majar al-Kabir, dove aveva avuto luogo il fatto sanguinoso, con la richiesta di denunciare i colpevoli entro 24 ore, minacciando in caso contrario di usare la forza. Gli americani a loro volta effettuano con le loro colonne blindate la “pulizia” di diverse zone, arrestando centinaia se non migliaia di persone. Vale a dire che la resistenza in Iraq è di massa, oppure che viene applicato il principio “ceceno”: catturare i primi che sono capitati e punirli a dovere, per impaurire gli altri. La maggior parte degli arrestati viene rimessa in libertà perché, per diversi motivi (fra cui l’ignoranza della lingua, ecc.) è impossibile dimostrare la loro partecipazione agli attentati. Visto che il rumore dei carri armati o delle autoblindo si fa sentire a distanza di un chilometro, i ribelli fanno sempre in tempo a nascondersi. Gli stessi soldati mormorano e sostengono di essere costretti ad impegnarsi in attività che non sono abituati a svolgere.
Sembra un gesto improntato a totale disperazione anche la dichiarazione degli USA che hanno promesso 25 milioni di dollari a chiunque presenterà informazioni sull’ubicazione di Saddam. Dopo questo, le affermazioni degli americani secondo cui le speranze di catturare il dittatore sarebbero alte, appaiono poco serie.
Pare che gli Usa stiano cominciando a pensare su chi si potrebbe scaricare la responsabilità per la ricostruzione dell’Iraq. Lo dimostra almeno un piano pubblicato recentemente, secondo il quale gli americani sarebbero stati sostituiti dalle truppe di 12 Stati. Non si sa peraltro che capacità combattiva avranno questi reparti. Alcuni Paesi, poi, che avevano promesso agli americani di inviare truppe, ora hanno ritirato queste promesse, come ha fatto ad esempio il leader pachistano Pervez Musarraf. Musarraf, che del resto ora ha i propri problemi da risolvere. Il movimento “Taleban” che sembrava ormai eliminato sta rinascendo. Il Mullah Mohammad Omar, l’ex guida spirituale dei “Talebani” ha nominato un consiglio di 10 dirigenti supremi del regime precedente, per gestire la “Jihad” contro le truppe straniere. Pare quindi assai probabile che gli americani dovranno far arrivare in Afganistan delle forze supplementari. Il Regno Unito l’ha già fatto.
Un’altra riserva, cui spettera’ in prospettiva tutto il carico della lotta ai sostenitori di Saddam, secondo gli americani, dovrà essere costituita dal nuovo esercito iracheno: la sua formazione è stata dichiarata da Paul Bremer, l’amministratore supremo americano in Iraq. Ma se si considera che verso la fine di quest’anno, in quest’esercito ci saranno solo 12000 persone, mentre Bremer già oggi chiede di far arrivare in Iraq quasi 50000 soldati, è difficile che un simile esercito, privo di ufficiali esperti (non ammessi in quanto tutti ex membri del partito Baas), possa diventare una forza reale.
Di conseguenza, gli americani sono stati costretti a chiedere aiuto ai curdi, ai quali in precedenza si programmava di lasciare solo una limitata autonomia. I curdi certamente forniranno proprie truppe. Ma in cambio chiederanno (se già non lo hanno chiesto) l’estensione del territorio da essi controllato ed i campi petroliferi di Mossul. La preferenza data ai curdi ha già suscitato una tensione nei rapporti tra gli USA e la Turchia, che ha avuto il proprio apice nell’assedio al campo delle teste di cuoio turche in Iraq, posto dagli americani, e nell’ arresto di 11 militari turchi.
La Russia intanto da una parte invita gli USA alla collaborazione in Iraq, e dall’altra vorrebbe tanto utilizzare le difficoltà degli Stati Uniti per consolidarsi nel nuovo Iraq. Così nel corso della visita di Vladimir Putin a Londra Igor Iussufov, il ministro russo del settore energetico, ha detto che tutti i contratti stipulati in precedenza sono validi dal punto di vista del diritto internazionale. “Sappiamo lavorare da quelle parti e sappiamo come farlo”, ha osservato il ministro. E l’arrivo a Mosca, il 7 luglio, di Jalal Talabani, il leader dell’Unione patriottica del Kurdistan, nonché le sue dichiarazioni sulla necessità di un contributo notevole da parte della Russia alla ricostruzione politica ed economica dell’Iraq hanno dimostrato che nell’ ambito della nuova élite irachena la Russia ha un gruppo importante di sostenitori.
Lo scandalo di oltreoceano
Negli USA e in Gran Bretagna continua a svilupparsi uno scandalo legato al fatto che i massimi dirigenti dei due Paesi avevano evidententemente mentito, affermando che il regime dell’Iraq aveva armi di distruzione di massa.
Per Tony Blair queste accuse sono quasi finite in dimissioni. E sebbene egli sia rimasto in carica, è stata compromessa la fiducia nei suoi confronti da parte dei colleghi di partito e degli elettori. Alcuni ministri, funzionari dei servizi d’informazione e anche l’addetto stampa personale del primo ministro Alister Campbell sono stati costretti a rispendere alle domande assolutamente imparziali della commissione parlamentare. Le risposte fornite hanno fatto venire a galla parecchie cose interessanti. Così il signor Campbell ha deposto che il famigerato dossier iracheno, per mezzo del quale Blair aveva indotto il Parlamento a varare la guerra, fosse stato in realtà un compendio destinato ai giornalisti. Inoltre, Blair ha litigato con la BBC. La segreteria del premier ha richiesto le scuse alla BBC per aver accusato il Governo in un suo reportage di aver gonfiato il pericolo rappresentato dalle armi di distruzuione di massa irachene, per giustificare l’entrata in guerra del Regno Unito.
E George Bush ha già fatto in tempo a dichiarare che le armi non possono essere trovate perché sarebbero state rubate dagli sciacalli. Incredibile, quanto capaci e quanto numerosi siano questi sciacalli (se dobbiamo dar retta, infatti, alle affermazioni precedenti degli americani, Saddam possedeva tonnellate di gas velenosi e di armi batteriologiche)! Ma è difficile che qualcuno ci creda davvero, soprattutto tra quelli che hanno i loro uffici sul colle Capitolino di Washington. I membri del Congresso e i senatori sono troppo competenti per cascarci. Il Presidente intanto promette che gli USA non si ritireranno fino a quando non avranno costruito una vera democrazia. Bush, come si vede, è sicuro e ottimistico, ma molto meno lo è l’opinione pubblica statunitense. Secondo un recente sondaggio, svolto dal sito internet della NBC News, nell’ultimo mese il numero di americani secondo i quali in Iraq tutto andrebbe bene per gli USA, si è ridotto dal 70 al 56 percento. Inoltre, negli USA sono state pubblicate le deposizioni di un diplomatico altolocato, dalle quali risulta che una parte dei materiali presenti nel “dossier iracheno”, e’ falsa.
Ipotizzando che gli USA e la Gran Bretagna possano prefabbricare qualcosa, il Ministero degli esteri russo ha già proposto di consegnare tutti i ritrovamenti che dimostrino la presenza delle armi di distruzione di massa ad una perizia internazionale.
Il terzo fronte
Sullo sfondo di tutti questi problemi e scandali, sempre meno probabile diventa l’intervento statunitense in Iran. Il Segretario di Stato Colin Powell ha detto di recente che gli USA non prevedono la possibilità di azioni “aggressive” nei confronti dell’Iran. Anche la posizione della Teheran ufficiale è poi abbastanza cedevole: ha, infatti, dichiarato la propria disponibilità a cooperare strettamente con gli ispettori dell’ONU in materia di armamenti nucleari. Goliamreza Agazade, capo del dicastero nucleare iraniano si è pronunciato addirittura a favore di un protocollo supplementare che stabilisca dei limiti strettissimi di controllo dei programmi nucleari da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ma che permetta all’Iran di continuare la propria estrazione di uranio. L’Iran poi gode del pieno supporto della Russia che dichiara di tanto in tanto la continuazione della cooperazione con l’Iran nell’ambito del programma nucleare pacifico. Se gli esperti nucleari russi peraltro se ne andranno, lo spazio libero sarà subito occupato, quasi sicuramente, dagli stessi americani.
Esiste anche un altro motivo che può togliere agli Usa la voglia di fare la guerra con l’Iran: questo Paese ha appena sperimentato un missile “Scehab-3”, capace di raggiungere Israele; e Bush potrebbe avere tanto bisogno dei voti della comunità ebraica... Senza decidersi a cominciare la guerra in Iran, ma necessitando di una piccola campagna militare vittoriosa per vincere le elezioni presidenziali che avranno luogo in autunno, Bush ha posto attenzione alla Liberia. Questo piccolo Paese africano, fondato dagli schiavi neri liberati, provenienti dagli USA, ormai da una quindicina d’anni è soggetto ad una guerra civile continua. Alcune settimane fa i ribelli hanno assediato un’altra volta Monrovia, la capitale della Liberia (cosi’ denominata, a proposito, in onore di Monroe, il quinto Presidente degli USA), volendo abbattere il Presidente Taylor che aveva vinto il round precedente della guerra e le elezioni presidenziali del 1997. E’ lì che Bush ha deciso di mandare il suo esercito come forza d’interposizione. Anche perché lo stesso Taylor, avendo avuto garanzie ufficiose d’incolumità, ha espresso disponibilità ad andare in esilio in Nigeria. Preparando l’opinione pubblica a quest’operazione, Bush ha in programma di visitare cinque Paesi africani. Se peraltro teniamo conto del fatto che in Liberia ci sono non meno contraddizioni interne che in Iraq, Bush richia di ottenere, invece di una piccola guerra vittoriosa, una campagna estenuante nella giungla.
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