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Numero 9(54)
E’ l’ora del dialogo

    Si sentivano braccati e si sono rifugiati nella Basilica della Natività di Betlemme.
    I duecento palestinesi si sono fermati 40 giorni in quel posto, come riparo dall’esercito israeliano, sporcando, rovinando, occupando un edificio sacro luogo di pace per ciascuna persona anche non credente. Alla fine sono rimasti in 13, terroristi, per i quali la diplomazia mondiale ha trovato un accordo: di distribuirli in 6 paesi europei (tre all’Italia) per un tempo determinato. Allora il premier israeliano Sharon aveva ragione. Era sicuro che l’azione militare avrebbe scovato dei terroristi kamikaze palestinesi. E i civili morti che non c’entravano? E che dire a quel padre palestinese che ha perso il figlio che stava per nascere perché l’ambulanza è stata bloccata a causa del coprifuoco? E le migliaia di persone anziane, ammalate, rimaste senza casa? Si dirà che questi casi tragici sono ammessi, che giustificano una simile azione in nome di una difesa da attacchi suicidi. Ma tale strategia militare ha voluto colpire nel mucchio per pochi terroristi, o forse per dare un esempio della potenza d’Israele. Ci si aspetterebbe allora che tutto fosse risolto. Che i due popoli, il palestinese e l’israeliano, inizino da qui per una convivenza senza più spargimenti di sangue. Invece gli attentati suicidi hanno continuato e altre persone innocenti sono morte. E’ di qualche giorno fa l’annuncio da parte di uno dei leader di Hamas, l’organizzazione terroristica palestinese, che le azioni dei “martiri” sono destinate ad intensificarsi, unica loro arma strategica. Di fronte a queste dichiarazioni non c’è proprio nulla di buono da sperare per l’immediato.
    Dall’ambito local-militare spostiamoci ora su quello politico. A questo punto è fondamentale chiedersi che cosa si può fare per affrontare con serietà la questione israelo-palestinese. Intanto bisogna trovarsi attorno ad un tavolo, ma per farlo ci vuole la volontà di entrambi i partner, come quella volta che i premier dei due paesi si incontrarono a Camp David (USA ) con la mediazione del Presidente americano. Poi è chiaro che la premessa necessaria per arrivare a tanto deve essere il riconoscimento dello Stato di Palestina. Infine bisogna che i due capi riconosciuti, Arafat per i palestinesi e Sharon per gli israeliani, siano disposti a mediare sui territori occupati. Sappiamo bene tuttavia che il leader israeliano ha forti contrasti interni che non gli permetteranno di giungere agevolmente ad un accordo. Dall’altra parte è ormai chiaro che Arafat non è l’unico capo palestinese, ma che ci sono frange terroristiche ben organizzate (non solo Hamas), con atteggiamenti estremistici che hanno individuato in Israele e nell’Occidente i nemici da annientare. Credo però che se si arrivasse ad una soluzione come quella prospettata sopra veramente si potrebbe iniziare a parlare di pace in Medioriente, isolando, o per lo meno diminuendo di molto, il rischio di nuove stragi. Ciò in virtù del fatto che, non essendoci più un motivo giusto per prendersela con gli israeliani, i giovani palestinesi che oggi si fanno saltare per aria in nome di un ideale puro come quello del martirio, domani si dedicherebbero ad attività meno criminose, rivolte al miglioramento delle condizioni di vita della propria gente e al conseguimento di quel credito internazionale che ancora manca. Iniziative positive in tal senso vengono da gruppi sparuti di giovani palestinesi che, non credendo nella violenza come arma vincente, convivono con i loro coetanei israeliani e cristiani in un clima di fraternità. Sono esempi isolati che anche i governanti conoscono. Speriamo che sappiano trarre beneficio da queste persone comuni anche se non sono protagoniste della scena politica.

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