Numero 1(46)
Conflitto per il Cashemire
Non appena hanno taciuto i cannoni in Afganistan, il Pakistan e l’India si sono trovati sull’orlo di una nuova guerra.
Tutto era iniziato il 13 dicembre del 2001, quando un gruppo di separatisti islamici del Cashemire aveva cercato di occupare
il Parlamento indiano, nel quale si trovavano in quel momento molti dirigenti del Paese. In risposta, l’India ha messo le sue
truppe in stato dall’erta, ha richiamato il suo ambasciatore dal Pakistan e ha manifestato la propria intenzione di eliminare
numerose basi di terroristi nel Cashemire indiano, nonché nello stesso Pakistan. Naturalmente, anche il governo pakistano si è
affrettato a mettere all’erta le sue forze armate e ha fatto alcune dichiarazioni bellicose. A questo punto, le parti si sono
fermate e si sono date una calmata, ricordandosi di avere armi nucleari che, se usate, potrebbero trasformare in un deserto
ciascuno die due Paesi. Inoltre, la parte che avrebbe iniziato la guerra, avrebbe inevitabilmente subìto sanzioni da parte dei
Paesi occidentali più ricchi, e soprattutto dagli USA.
Si è stabilito, in seguito, un certo equilibrio della paura: entrambe le parti sono pronte a colpire, ma aspettano di vedere a
quale delle due cederanno i nervi per prima. Intanto si scambiano accuse. L’India afferma che il Pakistan è uno Stato che appoggia
i terroristi, e cerca di conseguire l’approvazione di mozioni antipakistane in tutti gli enti possibili. I dirigenti pakistani,
a loro volta, dichiarano l’inizio della guerra contro le organizzazioni terroristiche, gli arresti di decine di islamisti, la
chiusura dei conti bancari dei radicali islamisti. Ma gli indiani non si lasciano convincere dalle dichiarazioni del leader
pakistano Musharraf, anche perché gli stessi separatisti affermano di non subire alcuna repressione. Gli indiani richiedono
misure reali mirate alla lotta contro il terrorismo, la cessazione dell’appoggio ai separatisti cashemiresi e l’estradizione
dei capi dell’organizzazione “Lashkar-i-taiba” che avevano ideato l’attacco contro il Parlamento indiano. Tutti i tentativi di
conseguire la conciliazione, intrapresi dall’ONU, dalla Gran Bretagna e dagli USA, per ora non hanno avuto alcun risultato.
E G. Bush ha anche insultato i pakistani, chiamandoli nel suo discorso televisivo con un soprannome spregiativo, “paki”, usato
dai britannici verso la metà dell’anno scorso.
Il problema principale sta nel fatto che la libertà di manovra delle parti è limitata. L’esecutivo indiano deve punire i
terroristi che erano stati vicini a distruggere il Parlamento e che in questo modo avevano umiliato l’India. Pervez Musharraf,
che a stento era riuscito a tenere in mano la situazione durante l’invasione della coalizione antitalebana in Afganistan, non
può permettersi un’altra ritirata. Naturalmente, il generale non può estradare i terroristi dall’India, perché in questo caso
egli sarebbe spazzato via. Di conseguenza, l’equilibrio della paura si manterrà abbastanza a lungo, finché i popoli di entrambi
Paesi non si siano un po’ calmati, dopo di che tutto tornerà come prima. E’ un peccato, comunque, che fino a quel momento
debbano morire decine di persone innocenti.
Semion Ciarnij
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