Numero 2(66)
Ci si fida sempre di meno del dollaro
Con l’inizio del 2003, la volatilità dei mercati valutari internazionali è aumentata notevolmente: il dollaro ha perso, nell’ultimo mese, il 10%-15% rispetto all’euro, e dall’inizio del 2002 ha perso il 20%-25%.
Mentre nel 2002 il dollaro diventava meno pesante in seguito alla riduzione dei tassi d’interesse negli USA e al trasferimento dei capitali verso gli attivi europei, oggi esistono alcuni motivi assai più rilevanti per prevedere una caduta ulteriore del dollaro. In primo luogo, il deflusso dei capitali dagli USA nel 2002 è stato veramente cospicuo. In particolare, mentre in precedenza il Paese era stato il primo nel mondo per il ritmo di attrazione di investimenti diretti, proprio nel 2002 ha ceduto il primato in questo settore alla Cina. L’indebolimento del conto del movimento di capitali non è stato accompagnato dal miglioramento del conto corrente, cioè delle operazioni export-import. Il deficit di operazioni correnti nell’anno scorso è ammontato a circa il 5% del PIL americano. E’ possibile far passare il consumo dell’economia statunitense dai prodotti importati a quelli interni solo svalutando il dollaro rispetto alle principali valute dei Paesi esportatori negli USA, cioè a quelle dei Paesi asiatici e, in parte, europei.
La necessità della svalutazione, poi, è tanto più rilevante che tuttora non ci sono indizi di un miglioramento considerevole della situazione, relativa alla dinamica del PIL americano. Gli indici di fiducia dei consumatori continuano ad essere deboli, i tassi di crescita sono bassi e la disoccupazione non si riduce. In tale quadro, il riorientamento della domanda finale verso la produzione interna, il quale avrebbe luogo qualora ci fosse una svalutazione, consentirebbe di aumentare l’occupazione e contribuire alla crescita ulteriore dell’economia internazionale.
Nel contempo, è ovvio che la caduta a breve termine del dollaro comporta, per i Paesi esportatori negli USA, la necessità e il peso di rallentare la crescita economica. Proprio per questo, schierandosi contro tale scenario, le Banche centrali del Giappone e di altri Paesi asiatici continuano con perseveranza a rimpinguare le proprie riserve, mantenendo, in questo modo, alta la domanda del dollaro, non permettendogli di cadere. Gli europei, invece, hanno permesso alla loro valuta di rafforzarsi, rispetto a quella statunitense, il che suscita già una certa preoccupazione riguardo ai tassi di crescita economica della Germania.
Le autorità russe sono in una situazione ambigua. Da una parte, la Russia è un Paese “dollarizzato”, e il suo volume di commercio è valutato prevalentemente in dollari. In tale situazione il calo del dollaro comporta la perdita della competitività di alcuni produttori russi e la riduzione della redditività delle esportazioni, valutate in dollari. Dall’altra parte, la Russia continua ad essere gravata da numerosi debiti in euro, e l’indebolimento del dollaro rende il servizio del debito in euro più caro dal punto di vista della spesa delle riserve.
Sembra che sia proprio la necessità di far corrispondere le riserve auree valutarie alla struttura del debito estero, a determinare la recente dichiarazione dei rappresentanti della Banca Centrale (BC) della FR. Oleg Viughin, il vice presidente della BC, ha rilevato che nel 2003 la BC può cominciare a modificare la struttura delle sue riserve. Oggi, secondo le stime degli esperti (le informazioni ufficiali a questo riguardo sono assenti), nella struttura delle riserve circa il 90% è occupato dai dollari e dagli strumenti agganciati ai dollari, sebbene nella struttura del debito estero, i prestiti in dollari costituiscano solo dal 60% al 70% di tutto il debito estero della Russia.
Dal punto di vista dei mercati finanziari, tale politica della BC significa che nel corso del 2003 il cambio del rublo rispetto al dollaro rimarrà nei limiti di 31,8-33,0 rubli per dollaro. E’ una brutta notizia per le compagnie russe che esportano prodotti valutati in dollari, o competono con prodotti importati valutati in dollari. Il Governo, dunque, non dovrebbe aspettare che la crescita economica si formi da sola: bisogna nutrirla, introducendo sgravi fiscali o allargando l’accesso alle risorse creditizie.
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