Numero 16(80)
Il Presidente della Repubblica non firma la Legge Gasparri
IL NO DI CIAMPI
CRISI POLITICA DI FINE ANNO, IL VETO DEL QUIRINALE METTE IN CRISI IL SISTEMA RADIOTELEVISIVO NAZIONALE
La politica italiana, a fine anno, era abituata ad andare in crisi sulla Finanziaria, quella, tanto per capirsi, sulla quale andò ad arenarsi il primo Governo di centrosinistra del paese guidato allora dall’attuale Presidente della Commissione UE Romano Prodi. Numeri, soldi, tasse, sgravi fiscali, condoni, previsioni di incassi e di spesa, provvedimenti economici… quest’anno che invece la legge finanziaria sembra non avere difficoltà a tenere banco è la Legge Gasparri inerente il riordino del sistema radiotelevisivo nazionale.
Una legge italiana perché sia valida deve essere approvata con il medesimo testo dai due rami del Parlamento (Camera e Senato, ndr) quindi deve essere controfirmata dal Capo dello Stato, ossia esattamente quello che non ha voluto fare Carlo Azeglio Ciampi. Una prerogativa, va subito detto, di cui il Capo dello Stato può avvalersi una volta sola; se le Camere infatti decidessero di rivoltare pari pari il testo bocciato dal quirinale in due dei suoi articoli chiave Ciampi dovrebbe piegarsi alla volontà degli eletti e apporre la sua firma in calce al documento, tant’è che lo stesso Ciampi ha detto che “quando il Parlamento parla, il Presidente tace”. L’Italia, infatti, è una Repubblica Parlamentare, e questo limite alle funzioni del Presidente è stato voluto dai padri fondatori della Costituzione. Non tace, invece, l’ex Presidente della repubblica Francesco Cossiga per il quale “se il Parlamento dovesse riapprovare la legge gasparri nel testo originario il Presidente della repubblica non sarebbe obbligato a promulgarlo comunque qualora ritenesse che la sua entrata in vigore produca lesioni dell’ordinamento costituzionale”. Non la pensa certo come Cossiga, invece, Roberto Calderoli, voce autorevole della Lega Nord e Vicepresidente del Senato che invece suggerisce di “riapprovare la legge con lo stesso testo, anche perché non vorrei, modificandola, che si creasse un precedente, e che Ciampi possa rinviarla un’altra volta alle Camere”.
Guardando il caso da fuori del Palazzo verrebbe da chiedersi quanto questa legge possa pesare sulla vita dell’esecutivo, e sul suo operato. Tanto, secondo l’opposizione, visto che si va dalla richiesta di dimissioni del Ministro delle Comunicazioni da cui la legge prende il nome fino alla richiesta di dimissioni da parte dell’intero Governo richieste dal Segretario del PdCI Oliviero Diliberto.
In assenza di una legge di riordino dell’intero sistema radiotelevisivo l’effetto immediato sarà uno sconquasso dei due poli dominanti: RAI e Mediaset. La prima è la televisione di Stato, il secondo è il gruppo televisivo che fa capo al Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi dando luogo a quella che gli avversari del premier hanno sempre definito come la cosiddetta “anomalia italiana”. RAI è attualmente sul mercato con tre reti: RAI 1, RAI 2 e RAI 3, lo stesso per Mediaset che ha nel proprio portafogli aziendale Canale 5, Rete 4 e Italia 1. Una sentenza della Corte Costituzionale stabilisce invece che, se entro il 31 dicembre 2003 non vi fosse stato un riordino complessivo per riequilibrare il mercato, Rete 4 sarebbe dovuta andare sul satellite, e RAI 3 rinunciare alla pubblicità, valore indicato dagli analisti in circa 150 milioni di euro all’anno.
Conseguenza inevitabile per entrambe le reti, sia la pubblica che la privata, un drastico ridimensionamento a cominciare dagli organici con migliaia di posti di lavoro in gioco. Il satellite, infatti, non è oggi molto utilizzato dal pubblico televisivo italiano, e quindi la possibilità di raccolta pubblicitaria per Rete 4 diventerebbe da un giorno all’altro infinitamente inferiore; allo stesso tempo RAI 3 senza spot farebbe fatica ad andare avanti a spese delle due altre reti. Un caos cui il Governo dovrebbe/potrebbe mettere mano con un decreto legislativo che sposti i termini dando il tempo al Parlamento di modificare e riapprovare la legge Gasparri, tanto che Flavio Cattaneo, Direttore Generale della RAI, ha dichiarato che “se non ci sarà un provvedimento su Rai 3 entro il 31 dicembre questo significa licenziamenti”.
L’operato del Quirinale, anche se gli appelli a Ciampi affinché non firmasse erano stati pressanti e ripetuti, non ha colto totalmente di sorpresa, ma ha comunque lasciato increduli molti rappresentanti del centrodestra facendo incupire lo stesso Berlusconi che a Bruxelles, dove si trovava per la Convenzione Europea, ha risposto così ai giornalisti che lo incalzavano sull’argomento: “mi sono sempre tenuto lontano da questa legge. Non ho letto i rilievi dei tecnici del Quirinale, né credo li leggerò mai”. Stizza irriverente o tentativo di spostare il tiro da Ciampi a più oscuri tecnici che hanno materialmente redatto il testo con cui la legge è stata rinviata alle Camere? “Sarebbe una cosa veramente impensabile -ha aggiunto Berlusconi- dire che nella più ampia offerta esistente oggi al mondo, che è quella italiana, non c’è pluralismo in televisione. Chi lo dicesse sarebbe sommerso dai fischi di tutti; credo ci sia un grande pluralismo nella stampa e nella televisione, e non credo ci sia nessuno che con la legge voglia mandare a casa mille persone a Rete 4 e mille persone a Rai 3”. Sta di fatto che invece Gianfranco Fini -Presidente di quell’Alleanza Nazionale di cui Maurizio Gasparri è uno dei leaders, e Vicepresidente del Consiglio- ha dichiarato di ritenere che “alcuni rilievi del Presidente della Repubblica debbano essere recepiti nello spirito e nella lettera. Sono convinto che il Parlamento approverà la legge Gasparri con le necessarie modifiche e che poi Ciampi firmerà.”
Diversi gli aspetti in questione: da dimissioni che l’opposizione chiede e che la maggioranza nemmeno prende in considerazione, al rischio di scontro istituzionale fra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio, dal nuovo testo da varare in aula alla possibilità di varare un decreto che salvi le due reti a rischio. Ignazio La Russa, Coordinatore di Alleanza Nazionale ha infatti cercato di sdrammatizzare con una battuta fulminante: “non vorrei vedere a Rete 4 un cartello con scritto ‘chiusa per pluralismo’ e RAI 3 con uno ‘chiusa per debiti’, non credo sia quello che vuole il Capo dello Stato”. Anche Sandro Bondi, Portavoce di Forza Italia, pensa ai dipendenti a rischio, per i quali la soluzione sarebbe proprio il decreto che “ridarebbe serenità alla vita politica italiana, al paese e alle famiglie di quanti rischiano il posto e che aspettano da noi risposte importanti”. Sul decreto, ovviamente, non tutti sono d’accordo. O meglio, non tutti i rappresentanti delle forze di opposizione la pensano allo stesso modo. Clemente Mastella, Segretario di UdeuR-Alleanza Popolare, ha detto “non ce l’ho certo con Fede (Direttore del telegiornale filo-berlusconiano di Rete 4, ndr). Ma occorre un decreto a breve termine che contenga le indicazioni fornite dal Quirinale “, e a Mastella fa eco Luciano Violante, già Presidente della Camera dei Deputati e oggi Presidente del Gruppo Parlamentare DS, “noi ovviamente siamo impegnati affinché non si perdano posti di lavoro, professionalità e molteplicità di offerta. Poi la legge va completamente rifatta, il testo della Gasparri è morto e defunto, esamineremo solo proposte serie e non truffaldine. Quanto al decreto bisogna vedere se ci sarà e cosa contiene. Se ci sarà un provvedimento dovrà certamente recepire i punti fondamentali del messaggio del Capo dello Stato. Solo questo lo renderebbe accettabile”. Di tutt’altro avviso i centristi dell’opposizione, a nome dei quali ha parlato Pierluigi Castagnetti, omologo di Violante nel Gruppo della Margherita, “il decreto non è ammissibile poiché sarebbe incostituzionale. Sono le Camere a dover fare una nuova deliberazione. Non riesco ad immaginare come possa inserirsi un’iniziativa del Governo in un procedimento che riguarda solo le competenze del parlamento, e non capisco neppure come un decreto possa modificare un termine perentorio (il 31 dicembre 2003, ndr) indicato dalla Consulta “. E cauto sul decreto è stato lo stesso Gasparri che ha parlato di “valutazioni di carattere giuridico, politico e parlamentare. Bisogna valutare l’iter per non creare danni al sistema delle comunicazioni che doveva crescere dalla legge. Bisognerà tenere conto sia delle preoccupazioni che sono emerse come del messaggio di Ciampi. Comunque non è la prima volta che succede che un Presidente non firmi una legge, di più: è successo 55 volte in 55 anni, quindi mediamente una volta all’anno!”. Ci sono poi Claudio Scajola, prima Ministro dell’Interno e ora Ministro del Programma che parla di “eccessiva drammatizzazione” della vicenda, e che sostiene ci sia “lo spazio per un provvedimento provvisorio che non crei ulteriori danni, e che possa garantire sia la pluralità dell’informazione che i livelli occupazionali”; Luca Volontè, Presidente del Gruppo UDC alla Camera, che dice “pretendiamo di lavorare per migliorare il testo della legge” e Alessandro Cè, che invece è Presidente del Gruppo della Lega Nord, che sostiene che “la maggioranza è sicuramente disponibile a una riflessione sulle osservazioni avanzate dal Presidente Ciampi”.
Molto diverse, infine, le razioni dei Presidenti dei due gruppi coinvolti. Lucia Annunziata, Presidente RAI che aveva annunciato le proprie dimissioni una volta firmata la legge ha detto che “sarebbe disonesto da parte mia non ammettere, visto le mie posizioni drastiche, che sono soddisfatta perché con la decisione del Capo dello Stato si riapre il dibattito su una legge che a mio avviso indebolisce il servizio pubblico”. Per Fedele Confalonieri, Presidente di Mediaset, invece, “nelle osservazioni di Ciampi si richiama una sentenza della Corte Costituzionale del 1985. Io dico: attenzione a riprendere principi come questi che sono preistoria dell’attuale mercato televisivo!”. I rilievi del Presidente riguardano soprattutto le concentrazioni e il mercato pubblicitario ritenendo non sufficientemente garantito dalla legge in oggetto il limite a potenziali posizioni di predominio sul mercato. Ma a smentire il Colle è Giulio Malgara, Presidente dei pubblicitari, il quale ha spiegato che i “circa 800 milioni di euro che si vorrebbero togliere dal mercato televisivo non ci si illuda ricadano automaticamente su quello dei quotidiani. Quel fatturato, infatti, è legato a prodotti come detersivi o generi alimentari che non si vendono, e non si venderanno mai attraverso i giornali”.
Cosa accadrà è immaginabile ma non scontato. Il Governo varerà in tempo utile un decreto cuscinetto, dall’opposizione c’è chi insorgerà invocando una violazione della costituzione per l’atto in quanto tale e chi per i contenuti dello stesso, quindi la legge Gasparri tornerà ad essere votata in Parlamento con qualche modifica che smorzi i toni fra Palazzo Chigi e Quirinale, e tutto apparterrà al passato, almeno fino a quando un’altra scheggia impazzita della politica italiana non farà riemergere la questione per sollevare un altro inutile polverone.
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